Con la grande maggioranza degli utenti di Facebook presa dalla smania di aggiungere amici, scrivere «mi piace», lasciare commenti, sarebbe forse il caso di fermarci e riflettere sugli effetti che i social network hanno sulle nostre vite oramai sature di informazioni. Che cosa ci spinge, quasi fosse un obbligo, a impegnarci tanto diligentemente con i diversi network? Il libro esamina la nostra ossessione collettiva per l’identità e il management di sé stessi coniugati con la frammentazione e il sovraccarico di informazione della cultura online. Lovink traccia un percorso innovativo, analizzando criticamente motori di ricerca, video online, blog, radio digitale, mediattivismo e Wikileaks. Questo libro lancia un forte messaggio rivolto a tutti gli utenti della Rete: liberiamo le nostre capacità critiche e cerchiamo di influenzare tecnologia e spazi di lavoro, o saremo destinati a sparire nella Rete. Pungente e acuto, senza essere pessimista, Lovink offre una critica delle strutture politiche e del potere incorporati nelle tecnologie che modellano la nostra vita quotidiana.
INDICE
Prefazione, di Vito Campanelli IX
Ringraziamenti XXIII
1. Introduzione 1
Catturare il Web 2.0 prima che scompaia 1
1.1. Breve storia del Web 2.0 5
1.2. A che punto sono le analisi critiche sul Web 2.0? 9
1.3. La colonizzazione del tempo reale 15
1.4. Dal link al «mi piace» 19
1.5. I netizen e l’emergere delle opinioni polarizzate 23
1.6. L’ascesa dei Web nazionali 27
1.7. In attesa di una teoria della rete 30
2. Psicopatologia del sovraccarico d’informazione 37
2.1. La morbida narcosi della presenza in rete 39
2.2. La capacità di auto-controllo sull’informazione 43
2.3. La questione del canone 48
2.4. L’effetto Carr 51
3. Facebook, l’anonimato e la crisi della molteplicità dell’io 57
3.1. Celebrare la molteplicità dell’identità 58
IndIce
VI Ossessioni collettive
3.2. Dall’auto-scoperta all’auto-promozione 62
3.3. La religione del positivo 63
3.4. Il trionfo dei cervelli svuotati 65
3.5. Reintrodurre l’anonimato 68
3.6. Anonymous non sta dalla tua parte 70
4. Trattato sulla cultura dei commenti 77
4.1. Rispondere al Web 78
4.2. L’archeologia dei commentari 82
4.3. Non basta domare i commentatori 86
4.4. Progettare l’ermeneutica di massa 89
5. Disquisizione sulla teoria critica di internet 97
5.1. La teoria critica nell’era della sovrabbondanza 98
5.2. Formulare una teoria critica della Rete 103
5.3. La cultura della recensione nell’epoca di internet 107
5.4. La cultura della rete come concetto e programma 110
6. Diagnosi di una fusione non riuscita 117
6.1. Quando la teoria perde mordente 118
6.2. L’esodo dai media studies 122
6.3. Un retaggio confuso 126
6.4. Tenersi al passo con i Google del mondo 131
6.5. I media studies nei Paesi Bassi 133
6.6. La svolta quantitativa 135
6.7. La svolta quantitativa verso nuovi programmi 137
7. Il blog dopo la bolla: Germania Francia, Iraq 145
7.1. Winer e il blog personale 146
7.2. I blog sono roba del 2004 151
7.3. Digressione nella blogosfera tedesca 153
7.4. La sfiducia nei numeri 154
Indice VII
7.5. L’ascesa dei Web anti-nazionalisti 157
7.6. Alto contro basso 159
7.7. Verso una cultura tedesca della Rete 161
7.8. Celebrare la blogosfera francese 165
7.9. La scomparsa della blogosfera irakena 171
8. La radio dopo la radio: dalle radio pirata agli esperimenti
su internet 183
8.1. Le radio libere di Amsterdam 184
8.2. L’avvento dei media sovrani e indipendenti 186
8.3. La scomparsa della radiofonia libera 189
8.4. Radio online come bivacco da campo 192
8.5. La radiofonia pirata diventa globale 194
9. L’estetica del video online, ovvero l’arte di guardare i database 201
9.1. Dopo il crollo della Grande Narrativa 203
9.2. Proattività e visualizzazione sociale 205
9.3. Per una teoria critica del video online: Video Vortex 209
9.4. Il futuro del video 212
10. La vita googlizzata nella società della consultazione online 219
10.1. Le isole della ragione di Weizenbaum 221
10.2. Aggregare tutto e ogni cosa 225
10.3. Rimostranze dal cuore dell’Europa 228
10.4. Analisi dei motori di ricerca nord-americani 230
11. L’organizzazione delle reti per l’ambito culturale e politico 237
11.1. L’attivismo da salotto 240
11.2. L’attivismo offline 243
11.3. Dare uno scopo all’attivismo 245
11.4. L’attivismo delle reti organizzate 248
VIII Ossessioni collettive
12. La tecno-politica di WikiLeaks 263
12.1. I pesci piccoli gonfiano i muscoli 264
12.2. Andare oltre il dibattito tra contenuto e vettore 266
12.3. Le politiche dei capoccioni 269
12.4. Le reti post-rappresentative 270
12.5. Il nuovo paradigma del whistleblower 274
PREFAZIONE DI VITO CAMPANELLI
Con questo nuovo saggio Geert Lovink, uno tra i principali teorici dei
nuovi media, prosegue il suo impegno di affrontare in chiave critica i
principali nodi tematici delle culture di rete. Nello specifico di Ossessioni
collettive, quarto saggio della serie, il focus è sulla seconda parte dell’era
Web 2.0: lo sguardo si estende dunque oltre la blogsfera (analizzata
nel precedente Zero Comments) per abbracciare le parabole descritte
da Google, YouTube, Wikipedia, Facebook, Twitter (e il suo presunto
ruolo nelle cosiddette rivoluzioni del Nord Africa e del Medio Oriente),
WikiLeaks ecc. Siamo in presenza di un’opera che, con linguaggio
da esperto recensore, potrei definire «matura», ciò a mio avviso è
vero in un duplice senso: da un lato segna un momento di piena maturità
nel percorso intellettuale di Lovink, dall’altro riflette su una fase di
sviluppo dei network digitali – quella alla quale si è soliti riferirsi con
la sigla 2.0 – che può forse ritenersi compiuta, in particolare ove si consideri
che le nuove modalità di accesso alla Rete, sempre più basate su
mobile apps e walled gardens, prefigurano la fine dell’esperienza del Web
così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi anni.
La cultura che dagli ambienti online si è estesa fino a colonizzare i
principali ambiti sociali contemporanei ha alimentato la fiamma che
brucia ogni esistenza nel falò dell’incessante lavoro di costruzione della
propria identità. Questo scenario, nel quale all’ossessione per l’identità
fanno da contraltare la frammentazione e il sovraccarico di informazioprefazione
di Vito Campanelli
X Ossessioni collettive
ni, rappresenta l’approdo della deriva sociale che ha investito i network
digitali – ed è proprio collocandosi in tale preciso punto che Lovink
dà vita alla propria analisi critica. Il direttore dell’Institute of Network
Cultures di Amsterdam si interroga innanzitutto sulla natura dei network
digitali, osserva dunque che se Internet, in quanto infrastruttura di
comunicazione distribuita, è stata a lungo celebrata per il suo potenziale
in grado di superare le asimmetrie di tipo top-down tipiche dei media
broadcast e delle democrazie rappresentative, oggi l’idea che si tratti di
una sfera eccezionale non sottoposta a regole è evaporata, e con essa il
modello libertario che ne aveva sostenuto la nascita. Piattaforme come
blog, forum di discussione e siti di informazione partecipativa, il fenomeno
del citizen journalism sono stati considerati una nuova frontiera
della libertà di parola, al punto da credere che una connessione a Internet
potesse bastare per partecipare attivamente alla vita politica. Gli eventi
degli ultimi anni hanno messo a dura prova tali convinzioni, si impone
quindi uno sforzo di riflessione critica che aiuti a chiarire, per esempio,
l’attuale portata di concetti quali partecipazione democratica e sfera pubblica.
I nuovi media hanno definitivamente superato la propria fase introduttiva,
ma continuano a scontrarsi con le strutture sociali e politiche,
come le aziende e le istituzioni della conoscenza (tradizionale).
Negli ultimi dieci anni, l’implementazione di reti di computer ha drasticamente
alterato le attività economiche quotidiane e i flussi di lavoro
del mercato, anche se a livello decisionale le procedure continuano
ad aggrapparsi a vecchi alberi organizzativi che evidenziano un’inevitabile
tendenza verso la centralizzazione. Il paradossale scenario contemporaneo
è in definitiva caratterizzato, da un lato, dal rafforzamento delle
strutture di potere e dall’aumento delle funzioni di controllo (tanto nei
mondi reali quanto in quelli virtuali) e, dall’altro, da ambienti online
nei quali decine di milioni di utenti lavorano, flirtano, chattano e giocano
indifferenti a ciò che genitori, insegnanti, giornalisti o celebrità
hanno da dire sui social media. Di fronte a tali contraddizioni l’interrogativo
sul quale Lovink ci invita a riflettere è: la cultura di Internet
supererà mai la sua fase adolescenziale?
Prefazione XI
Il merito principale di Lovink, al di là dell’ampiezza dell’analisi, che
pure – rileva McKenzie Wark – abbraccia un orizzonte esteso al recente
passato, al presente più attuale e finanche ai futuri mancati per una
virgola, è piuttosto da individuare nel peculiare approccio che permette
di aprire nuove strade alla critica sociale dei media contemporanei.
Il teorico dei media olandese infatti prescinde dalla necessità di identificare
il nemico o, in mancanza, di inventarne uno a partire dal quale
costruire par des différences il proprio pensiero critico. In questa maniera
Lovink evita le semplificazioni nelle quali incorre ogni dialettica degli
opposti, non lasciandosi irretire né dal cyber-ottimismo alla Shirky, né
dal cyber-pessimismo alla Keen. Più che mettersi contro o a favore di questo
o quel medium, Lovink ha scelto di stare nei media, di vivere a fondo
i network sociali – ed è proprio da questa posizione che osserva e riflette
ma anche esperisce. Fa sue le contraddizioni intrinseche della Rete e
attraverso pratiche quotidiane e una continua sperimentazione riesce
ad andare oltre il presente stato delle cose. Di Lovink, più che di altri, si
può dire che la riflessione teorica va di pari passo con la pratica attiva,
per l’appunto definita «teoria critica in azione». Basta dare una occhiata
all’indice, per convincersi che molti argomenti di questo libro sono
l’approfondimento di spunti emersi durante le numerose conferenze
organizzate negli ultimi anni dall’istituto diretto da Lovink: da My
Creativity a Video Vortex, da Winter Camp a Society of the Query, a Critical
Point of View ecc. Lo stesso stile narrativo che spesso caratterizza le
pagine dello studioso olandese è di conseguenza da attribuire, più che
a una mera scelta stilistica, all’impossibilità di separare la riflessione dal
ricordo di esperienze personali e dal racconto di storie, di personalità
e di realtà vissute in prima persona. Siamo in definitiva di fronte a un
pensiero non contemplativo ma profondamente partecipe delle realtà
osservate, al punto che leggere Lovink significa dare inizio a un viaggio
che conduce a toccare i momenti più significativi della breve saga delle
culture di rete.
Lovink, peraltro, può ben essere considerato un uomo di più mondi:
nato infatti in Europa, ha completato la propria formazione in AustraXII
Ossessioni collettive
lia prima di tornare nuovamente nel Vecchio Continente e anche i suoi
affetti più intimi lo legano al continente oceanico. Queste vicende personali
sono a mio avviso molto importanti, esse hanno infatti un riflesso
decisivo nell’approccio teorico di Lovink, in particolare la perenne
necessità di confrontarsi con l’altro emisfero del proprio orizzonte mentale
mi sembra possa essere considerata alla base della sua formidabile
capacità di superare gli steccati del pensiero e di ibridare tra loro tradizioni
apparentemente lontane. Il rifiuto di ogni integralismo lo porta
ad andare oltre la sua stessa formazione marxista: niente funambolismi
dialettici, se il materialismo storico si rivela inefficace a spiegare la specificità
del contemporaneo si può tranquillamente lasciarlo in soffitta,
chissà che non torni utile in futuro…, e del resto – come lui stesso ammette
– si è rivelata del tutto fallimentare l’idea di fondare una teoria critica
di Internet nel solco della tradizione della Scuola di Francoforte.
Un’opinione per nulla isolata che è possibile connettere alle analoghe
perplessità emerse già nei primi anni Ottanta, anche se in relazione
a differenti media. Come non ricordare per esempio che per Flusser
l’automazione della fotografia rende obsoleta una critica culturale che
provi a decifrare in ogni immagine gli interessi di coloro che detengono
il potere mentre andrebbe indagata l’essenza degli apparecchi ossia
proprio la loro automaticità. Argomento questo che, a maggior ragione,
può essere riproposto in relazione alle moderne tecnologie della comunicazione
che, per loro intrinseca natura, tendono a dar vita a routine
automatiche sempre più indipendenti dalla volontà e dagli interessi
dell’essere umano.
L’approccio critico dello studioso olandese prende le distanze dalla
domanda – variamente formulata e ripetuta da Carr, Keen, Schirrmacher,
Lanier ecc. – sul come Internet e i media digitali influenzino la
gente; Lovink ritiene infatti che il «dibattito su internet e società non
dovrebbe essere né “medicalizzato” né moralizzato». Occorre invece
assumere il punto di vista delle pratiche quotidiane degli utenti per provare
a capire che cosa la gente sta facendo con questi media. Nel capitolo
introduttivo si legge: «Intendo dare risalto a quegli aspetti quotidiani
Prefazione XIII
nell’uso di internet che spesso passano inosservati. Affronterò la transizione
alquanto invisibile dall’uso di internet come strumento alla creazione
di “culture degli utenti” diffuse e collaborative che iniziano a
evidenziare caratteristiche tutte proprie, infondendo così la vita all’interno
del mondo tecnologico. È in quest’ecologia relativamente nuova
che le idee trovano terreno fertile per l’immediato processo di tentativi
ed errori. Questi concetti possono essere considerati qualcosa di astratto,
ma nel contesto di vivaci culture di Rete emergono dall’interno e
non cadono certo dall’alto».
Ovviamente questo non significa ignorare le strutture e i poteri
incarnati nelle tecnologie, tutt’altro, si tratta di un invito a sollevare per
un momento gli occhi dalla «realtà sociale» per dedicarsi alla contemplazione
di un panorama più ampio che, in quanto tale, possa comprendere
l’imprescindibile aspetto tecnico (del quale è necessario mettere
continuamente in discussione le falsificazioni), ma anche la formulazione
di nuovi concetti (o la riformulazione di vecchi) in grado di tradursi
in architetture tecnologiche, in codice, in pratiche quotidiane, in
cultura, in consuetudini, in nuove forme organizzative e imprenditoriali.
In questa prospettiva l’analisi critica assume la fisionomia di «un’arte
manuale necessaria» che predilige il terreno delle pratiche sociali (con le
parole di de Certeau «ciò che avviene sotto la superficie della tecnologia
e turba il suo gioco» ), i dati empirici e le nuove metodiche (digitali)
di ricerca (ad esempio l’approccio proposto da Manovich con la formula
cultural analytics), mentre si sottrae alle paludi speculative dell’accademia
e delle istituzioni culturali tradizionali che – come osserva
Lovink – si sono mostrate del tutto inadeguate rispetto «alla fluidità
degli oggetti mediatici di questa nostra era del tempo reale». Soprattutto,
Lovink ritiene indispensabile svincolarsi dall’ipoteca dei cultural
studies e dalla «consumata dialettica del vecchio e del nuovo», in quanto,
invece di insistere sulle generiche affinità con carta stampata, radio
e TV, sarebbe opportuno concentrarsi sulle specificità delle piattaforme
emergenti – in estrema sintesi: bisogna iniziare a trattare i media digitali
come oggetto di studio autonomo.
XIV Ossessioni collettive
Sono pienamente concorde – e mi permetto di aggiungere che sarebbe
indispensabile compiere anche un ulteriore passo, forse più radicale
– riguardo alla necessità di spezzare la linearità con il passato. Occorre,
in altre parole, attuare una frattura netta con l’umanesimo, il che significa
svincolare (finalmente!) i media digitali dalla modernità e da prospettive
che insistono sulla centralità dell’essere umano. Se si ammette
che è giunto il momento di rendersi conto che le macchine hanno
una propria autonomia, andrebbero di conseguenza incoraggiati quegli
approcci disponibili a considerare le macchine alla stregua di quelli
che Abruzzese definisce «dispositivi anti-moderni» operanti attraverso
continui «sconfinamenti al di là dell’umano». Con un’affinità di pensiero
rispetto a Lovink che può apparire sorprendente, soprattutto ove
si consideri lo scarto anagrafico, il sociologo italiano osserva che è solo
«andando oltre i saperi e i paradigmi delle culture storiche che le hanno
prodotte» che le innovazioni «possono trovare modi locali, circoscritti,
di venire usate, socialmente applicate, accolte» .
Un ruolo cruciale nel processo che proprio attraverso le pratiche
sociali quotidiane ha condotto ad appropriarsi della Rete (abitandone
gli spazi, incarnandone le tecnologie ecc.), è stato svolto indubbiamente
dai blog, ai quali va riconosciuto il merito di aver colmato il solco
tra Internet e società. Proprio grazie al fenomeno dei blog abbiamo
superato la fase delle cyberculture degli anni Novanta e tutti insieme
ci siamo entusiasticamente tuffati nell’era del Web 2.0, ma – osserva
il teorico olandese – al momento di pagare il conto abbiamo scoperto
che il prezzo era piuttosto alto: la banalizzazione di quelle spinte a
un cambiamento dal basso che avevano dato vita al fenomeno; i blog
infatti privilegiano «l’aspetto visivo sull’introspezione, la documentazione
priva di riflessione e l’archiviazione senza internalizzazione».
Come sottolinea Lovink, nella cornice dell’attuale capitalismo comunicativo
ciò che conta è solo l’apparenza, mentre non ha alcuna rilevanza
la questione dell’esistenza di un’identità, vera o immaginaria che
sia, al di sotto della superficie di ciò che si vede. Lo schema proposto
dallo studioso olandese al riguardo mi sembra di rara efficacia: «la
Prefazione XV
gente produce le proprie identità tramite i mezzi di comunicazione in
rete. Internet è un medium per l’esperienza di massa, pur se altamente
differenziata e singolarizzata. Il blog si pone come la tecnologia che veicola
quest’esperienza». Se ne deduce che il pericolo principale che attanaglia
le pratiche mediali quotidiane è la caduta nell’autoreferenzialità
e in effetti non è così azzardato sostenere che il dialogo nei network
sociali contemporanei appare più che altro un’illusione; in particolare,
come sostiene Lovink in Zero Comments, è proprio la blogsfera, che per
sua natura dovrebbe essere uno spazio polifonico, a presentarsi invece
come un ambiente chiuso. Per il teorico olandese, i blog danno vita a
comunità di persone che la pensano allo stesso modo e ciò finisce per
confinare il dibattito all’interno di nuvole di blog omogenei – in una
siffatta situazione, l’esclusione del dissenso non è nemmeno necessaria,
in quanto nessuno posta sui blog degli avversari. Ecco proprio questo
è per Lovink il limite di tali media: la possibilità di rispondere è
spesso completamente eliminata ma, anche quando ciò non accade, il
gesto di commentare un blog con il quale si è in disaccordo è addirittura
ritenuto insensato. In definitiva, per l’autore di Zero Comments, il
dibattito si articola all’interno di nuvole omogenee che restano chiuse
in se stesse e che si negano a ogni confronto con opinioni divergenti o
di segno opposto. Se dunque è vero che gli algoritmi software alla base
dei network sociali sollecitano tutti a dare forma pubblica alle proprie
opinioni, è altrettanto indiscutibile che sempre più raramente si assiste
a incontri, a meno di non considerare tali l’adesione acritica consentita
dal tasto «Mi piace». Nello scenario che si apre all’osservazione critica,
la blogsfera, e in generale i network sociali, sembrano sfuggire a ogni
dialettica: tutti scrivono ma nessuno legge quello che gli altri hanno
scritto; tutti esprimono la propria opinione ma nessuno si richiama
alle opinioni di segno opposto espresse da altri; tutti sono impegnati a
incrementare il numero dei propri amici ma nessuno coltiva l’ipotesi del
confronto/scontro con eventuali nemici.
Muovendo da tale consapevolezza risulta piuttosto agevole comprendere
il ripetuto richiamo di Lovink alla necessità di un impegno
XVI Ossessioni collettive
comune affinché siano reintrodotte condizioni autenticamente dialogiche
ovvero tali da sottrarre i network alla propria intrinseca inclinazione
all’autoreferenzialità. Ciò è possibile, in particolare, se si abbandona
l’attuale simulacro di socialità basato su legami deboli e quindi, nello
specifico dei network sociali, se si contrasta il funzionamento di quegli
algoritmi che inducono a esplorare gli estremi confini della socialità
– mi riferisco ai margini popolati da persone che non conosciamo
veramente (amici di amici) – in favore del rafforzamento di quei legami
sociali reali che possono beneficiare enormemente dell’organizzazione
in rete (organized networks secondo la definizione di Lovink e Rossiter)
per gestire relazioni altrimenti impossibili (a causa di barriere spaziali,
temporali ecc.).
È interessante rilevare come proprio una diversa valutazione della
socialità derivante da legami deboli sia alla base delle differenti posizioni
che nell’ambito della teoria critica di Internet dividono chi – come
Clay Shirky – enfatizza le opportunità, connesse alle nuove forme di
socialità, di dar vita a collaborazioni su scala globale e a nuove forme
di condivisione della conoscenza in grado di capitalizzare il tempo libero
(surplus cognitivo) di un’umanità sempre più interconnessa, e chi
all’opposto – come Jodi Dean – rileva la natura tautologica dell’espressione
social media e nega con forza che di fronte a tali manifestazioni
sia possibile parlare di socialità: i media sociali sono infatti individualistici
e competitivi e, come tali, del tutto proni al paradigma liberista;
prova ne sia che anche molte delle prospettive critiche su Internet non
fanno altro che insistere con rivendicazioni di valori tipicamente liberisti
quali la privacy, una maggiore libertà, decentralizzazione ecc. Per
la studiosa statunitense i veri problemi da affrontare sono invece l’incessante
moltiplicazione, la dispersione e l’isolamento sociale prodotti
dalla decentralizzazione dei flussi nei network digitali e dalla precarizzazione
delle vite indotta dalle politiche liberiste.
Lovink è sicuramente più vicino alla posizione della Dean, con la
quale ha dato vita a un intenso rapporto di collaborazioni, tanto che
(muovendo dalla rilettura di alcune tesi centrali in Baudrillard, in primis
Prefazione XVII
quella dell’implosione del sociale nei media) sottolinea come nei social
network il termine sociale sia diventato cool ed è dunque stato neutralizzato.
Ciò che possiamo riscontrare nei social media è infatti un simulacro
di socialità che si manifesta prevalentemente in rappresentazioni di
fatti sociali, in visualizzazioni grafiche di reti sociali ecc. A ben vedere
si tratta soprattutto di una strategia opportunistica per la gestione di
immense moli di dati digitali (big data) che gli utenti sono continuamente
chiamati a valutare, commentare, recensire, indicizzare, segnalare
ecc. Con efficace metafora Lovink osserva che siamo tutti diventati
«utenti-operai che lavorano per l’ape regina Google». Siamo incapsulati
in «reti prive di scopo» e «divoratrici di tempo» – «e così veniamo risucchiati
sempre più in profondità in una caverna sociale senza sapere cosa
stiamo cercando».
Un altro punto di prossimità tra Lovink e Dean è rappresentato
dall’analisi del meccanismo di cattura in atto nei social network: nella
visione della studiosa di teoria politica statunitense è centrale il tema
delle pulsioni (drivers), in particolare la teoria lacaniana del montaggio
come pulsione viene rivista e attualizzata con riferimento ai mashups e
ai remix. Questi danno vita al reale movimento che anima i contemporanei
network dell’intrattenimento e della comunicazione; in tali
circuiti le pulsioni circolano tutt’intorno producendo soddisfazione di
bisogni primari, quali quello alla comunicazione, anche se falliscono il
proprio obiettivo non essendo più capaci di concepire un oggetto del
desiderio. La legge del desiderio cede dunque il passo a una logica della
pulsione che si manifesta in una continua messa in scena (la ripetizione
senza fine che caratterizza la cultura del remix) di quel vuoto che
non è più possibile colmare. Per Lovink, uno dei principali paradossi
della società contemporanea è costituito dal fatto che tutti vogliamo
«essere unici» eppure siamo mossi da desideri identici; ciò ha reso
agevole il lavoro della classe imprenditoriale del Web che ha costruito
le piattaforme di social networking proprio sulla base della convinzione
che siamo tutti spinti dall’«incestuoso desiderio di essere proprio
come i nostri amici». Grazie alle modalità non lineari dell’esperienza,
XVIII Ossessioni collettive
consolidatesi in forza di consuetudini nelle quali l’accesso alla cultura
è sempre più mediato da database (per Lovink è proprio questa l’autentica
costante culturale della fase iniziale del XXI secolo), oggi c’è
molto più coinvolgimento degli utenti. Non si tratta però solo di participatory
culture, nel senso di prosumers che creano contenuti e li immettono
nel flusso digitale, quanto piuttosto di individui che incorporano
oggetti mediali (video, immagini, brani musicali ecc.) nelle proprie
vite nel momento stesso in cui li condividono, li associano a un altro
oggetto mediale, li commentano (dove commentare ha perso la connotazione
orale e testuale propria delle precedenti ere mediali e sta oggi
a indicare qualsiasi possibile reazione provocata da un oggetto culturale).
Siamo, in definitiva, di fronte a una gigantesca «macchina autopromozionale
» trainata dal desiderio dei consumatori e alimentata dal
«marketing dell’io» che scatena l’«inarrestabile impulso ad ammassare
sempre più cose – da amici e amanti fino a prodotti griffati, servizi
e altre brevi esperienze semi-esclusive». In tale scenario – osserva
giustamente Lovink – «il passaggio dal link al “mi piace” come moneta
sonante prevalente sul Web simbolizza lo strappo nell’economia
dell’attenzione dalla navigazione basata sulla ricerca all’ambito autoreferenziale
o recintato nei social media». Nei social network l’utente
visita e si iscrive ai gruppi ai quali i propri amici hanno accordato
preferenza, naviga i siti preferiti da altri utenti che li hanno aggiunti ai
propri shared bookmarks, predilige i video e i brani musicali al top delle
categorie most viewed e most ranked, nelle tag clouds clicca sulle parole
con un corpo maggiore, entra nelle chat-rooms con più ospiti, nei
forum contribuisce ai topics con un più elevato numero di post, fruisce
continuamente di contenuti related (ovvero proposti automaticamente
da un software perché archiviati in database secondo categorie affini a
quella del contenuto originariamente consultato dall’utente), preferisce
le pagine che figurano tra i primi dieci risultati del motore di ricerca
consultato, legge articoli da rassegne stampa che altri hanno assemblato,
e così via in una continua routine autoreferente. Come rileva
Lovink, «la massima codificata qui è: voglio vedere ciò che vedi tu.
Prefazione XIX
[…] Quelli che cercano profondità stanno semplicemente abbaiando
all’albero sbagliato».
In uno scenario che si caratterizza per la straordinaria stratificazione
di contenuti in immensi database è ben presto emersa l’impossibilità
di interagire con tale complessità, se non attraverso il tramite rappresentato
da quell’opaco strumento che sono i motori di ricerca. A tale tematica
Lovink ha dedicato grande attenzione, si tratta infatti di un nodo
cruciale in una società nella quale il ricercare informazioni è diventata
una delle occupazioni prevalenti (di qui la definizione di society of
query) ma il cui approfondimento sconta tutte le difficoltà derivanti dal
confronto con un oggetto «astratto e invisibile»; il ricercare infatti ha
a che fare, in qualche modo, con il subconscio: si va su un motore di
ricerca, si digita qualcosa, si clicca e si è già altrove. Non c’è il tempo di
domandarsi se il risultato della ricerca sia una fotografia oggettiva della
Rete oppure risponda alla logica del software che regola le ricerche, agli
interessi economici della società che gestisce il motore di ricerca, agli
interessi politici del paese nel quale mi trovo nel momento in cui effettuo
la ricerca ecc. Come è facile intuire si tratta invece di domande la
cui urgenza è resa ancora più drammatica dalla posizione di assoluto
monopolio assunta da Google nell’ambito dell’economia dell’informazione.
La tendenza a rimuovere ogni livello critico nell’atto di effettuare
ricerche online è peraltro accentuata da dispositivi come i tablet che,
permettendo ricerche vocali, eliminano anche quel minimo di consapevolezza
che deriva dal confronto con l’interfaccia del motore di ricerca:
urlo (chissà perché tendiamo ad alzare la voce quando parliamo con le
macchine?) al mio tablet «ristoranti ad Amsterdam» ed ecco aprirsi una
pagina con una selezione delle proposte di esperienze culinarie più allettanti
offerte dalla città olandese.
Per uscire da tale impasse Lovink ci invita a guardare dentro quelli
che Flusser definirebbe black boxes ovvero apparati tecnologici che utilizziamo
per relazionarci gli uni con gli altri senza avere alcuna consapevolezza
del loro reale funzionamento. Non sappiamo cosa c’è dentro
gli oggetti tecnologici che utilizziamo, conosciamo molto poco delle
XX Ossessioni collettive
strategie economiche e politiche che guidano l’espansione infinita di
giganti quali Google o Facebook, ma proprio tale condizione di ignoranza
deve spingerci a sviluppare un maggiore senso critico rispetto
alle interazioni con la tecnologia che scandiscono il tempo delle nostre
giornate. Ciò è possible in particolare attraverso l’attivismo mediatico,
un concetto molto caro a Lovink (che già nel 2003 scrive insieme
a David Garcia un testo dal titolo The ABC of Tactical Media), che io
tendo a interpretare in senso letterale come essere attivi con i media. Essere
attivi significa mettere le mani nei media e inventarsi utilizzi diversi
da quelli ai quali sembrano essere preordinati, uscire dall’autoreferenzialità
rilanciando continuamente il dialogo, neutralizzare le macchine
impegnandole in compiti che non potranno mai portare a termine,
sganciarsi dagli infiniti flussi di ripetizione-imitazione inserendo nel
modello replicato (remixato) elementi di dissonanza, disorientare, intimorire,
soprattutto non rassicurare. Queste pratiche, come le tante altre
che è possibile architettare, sono tutte riconducibili al concetto di utilizzo
tattico dei media che risale (almeno) a de Certeau e che Lovink fa
proprio adattandolo di volta in volta ai media contemporanei: la radio
prima, Internet poi. Ed è estremamente interessante constatare che lo
studioso olandese non si stanca mai di indicare, nelle pratiche che quotidianamente
i comuni cittadini della Rete si inventano, il terreno privilegiato
al quale rivolgere l’attenzione nella difficile ricerca di alternative
in grado di invertire la polarità negativa dei network sociali. Del resto
non è forse vero che – come sostiene Abruzzese – è nel trivio che si
determinano gli usi sociali della tecnologia?
In definitiva Lovink è portatore di una prospettiva che – a mio avviso
– sarebbe estremamente salutare per ogni teoria critica dei media, essa
si fonda sulla convinzione che gli utenti non sono da considerare vittime
predestinate e senza scampo nell’agone mediatico, essi sono invece
soggetti attivi, dunque attori sociali in grado di liberare le proprie capacità
critiche e con queste influenzare – o meglio – provare a influenzare
i processi attraverso cui la tecnologia prende forma. Naturalmente
non c’è da farsi grandi illusioni, la sproporzione delle forze in campo è
Prefazione XXI
enorme, ma ciò non deve scoraggiare dall’individuare e dall’esplorare le
fenditure che si aprono anche in sistemi apparentemente invulnerabili.
«La battaglia per internet non è ancora chiusa» – scrive Lovink – e
in effetti finché ci sarà qualcosa in gioco, gli individui, attraverso le
proprie pratiche quotidiane, potranno continuamente inventarsi nuove
possibilità, come nel caso – che trovo assolutamente emblematico – di
quegli attivisti siriani che sul popolare Google Maps cambiano i nomi
delle strade (ciò è possibile perché Google, in ossequio alla filosofia
del crowdsourcing, permette agli utenti di aggiornare, attraverso il servizio
Map Maker, la toponomastica delle proprie mappe; in pratica se
più utenti indicano lo stesso nome di un luogo quell’indicazione viene
ritenuta affidabile e la mappa aggiornata). In questa maniera le strade,
invece di glorificare figure vicine al regime, diventano simboli commemorativi
degli eroi caduti per la libertà.
Certo forme di attivismo mediatico come questa non cambieranno
forse le sorti del paese arabo e, meno che mai, quelle del mondo; ma
sarebbe un grande errore ignorarle: esse infatti sono in grado di favorire
una consapevolezza globale sulla tragedia che vivono quotidianamente
gli oppositori del regime siriano. A mio avviso si tratta di iniziative che
operando a un livello estetico sono in grado di produrre un impatto
mediatico ben maggiore, che so, dell’ennesimo sito di denuncia contenente
un diluvio pornografico di immagini di dissidenti siriani massacrati
dal regime, immagini alle quali, nella cornice di un pianeta iper-spettacolarizzato
e iper-reale (Baudrillard, Žižek, Perniola ecc.), si diventa ben
presto assuefatti e si finisce per non prestare più alcuna attenzione. Spostando
repentinamente il focus dall’estetica come pratica sociale all’analisi
socio-politica bisogna riconoscere che anche nel caso dell’hacking
di Google Maps è in astratto possibile applicare il «paradigma di Morozov
» e dunque ritenere che in esso sia palese il ruolo strategico di Google
nella congiura imperialista occidentale contro i governi autoritari e, nello
specifico, contro la Siria. Ma, se solo ci si ferma a riflettere su un qualsiasi
fatto di segno opposto, come per esempio la circostanza che grazie a
Google Earth i paesi nemici degli Stati Uniti hanno potuto localizzaXXII
Ossessioni collettive
re le basi segrete americane, ecco che il quadro si fa all’improvviso traballante,
i confini tendono a sfocarsi mentre diventa chiaro, ancora una
volta, che la realtà modellata con le pratiche rese possibili dalle moderne
tecnologie è di gran lunga più complessa delle semplificazioni alle
quali conduce l’opposizione diadica tra cyber-ottimisti e cyber-pessimisti.
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