mercoledì 2 gennaio 2013

Ossessioni collettive: critica dei social media [Geert Lovink]

Con la grande maggioranza degli utenti di Facebook presa dalla smania di aggiungere amici, scrivere «mi piace», lasciare commenti, sarebbe forse il caso di fermarci e riflettere sugli effetti che i social network hanno sulle nostre vite oramai sature di informazioni. Che cosa ci spinge, quasi fosse un obbligo, a impegnarci tanto diligentemente con i diversi network? Il libro esamina la nostra ossessione collettiva per l’identità e il management di sé stessi coniugati con la frammentazione e il sovraccarico di informazione della cultura online. Lovink traccia un percorso innovativo, analizzando criticamente motori di ricerca, video online, blog, radio digitale, mediattivismo e Wikileaks. Questo libro lancia un forte messaggio rivolto a tutti gli utenti della Rete: liberiamo le nostre capacità critiche e cerchiamo di influenzare tecnologia e spazi di lavoro, o saremo destinati a sparire nella Rete. Pungente e acuto, senza essere pessimista, Lovink offre una critica delle strutture politiche e del potere incorporati nelle tecnologie che modellano la nostra vita quotidiana.


INDICE
Prefazione, di Vito Campanelli IX
Ringraziamenti XXIII
1. Introduzione 1
Catturare il Web 2.0 prima che scompaia 1
1.1. Breve storia del Web 2.0 5
1.2. A che punto sono le analisi critiche sul Web 2.0? 9
1.3. La colonizzazione del tempo reale 15
1.4. Dal link al «mi piace» 19
1.5. I netizen e l’emergere delle opinioni polarizzate 23
1.6. L’ascesa dei Web nazionali 27
1.7. In attesa di una teoria della rete 30
2. Psicopatologia del sovraccarico d’informazione 37
2.1. La morbida narcosi della presenza in rete 39
2.2. La capacità di auto-controllo sull’informazione 43
2.3. La questione del canone 48
2.4. L’effetto Carr 51
3. Facebook, l’anonimato e la crisi della molteplicità dell’io 57
3.1. Celebrare la molteplicità dell’identità 58
IndIce
VI Ossessioni collettive
3.2. Dall’auto-scoperta all’auto-promozione 62
3.3. La religione del positivo 63
3.4. Il trionfo dei cervelli svuotati 65
3.5. Reintrodurre l’anonimato 68
3.6. Anonymous non sta dalla tua parte 70
4. Trattato sulla cultura dei commenti 77
4.1. Rispondere al Web 78
4.2. L’archeologia dei commentari 82
4.3. Non basta domare i commentatori 86
4.4. Progettare l’ermeneutica di massa 89
5. Disquisizione sulla teoria critica di internet 97
5.1. La teoria critica nell’era della sovrabbondanza 98
5.2. Formulare una teoria critica della Rete 103
5.3. La cultura della recensione nell’epoca di internet 107
5.4. La cultura della rete come concetto e programma 110
6. Diagnosi di una fusione non riuscita 117
6.1. Quando la teoria perde mordente 118
6.2. L’esodo dai media studies 122
6.3. Un retaggio confuso 126
6.4. Tenersi al passo con i Google del mondo 131
6.5. I media studies nei Paesi Bassi 133
6.6. La svolta quantitativa 135
6.7. La svolta quantitativa verso nuovi programmi 137
7. Il blog dopo la bolla: Germania Francia, Iraq 145
7.1. Winer e il blog personale 146
7.2. I blog sono roba del 2004 151
7.3. Digressione nella blogosfera tedesca 153
7.4. La sfiducia nei numeri 154
Indice VII
7.5. L’ascesa dei Web anti-nazionalisti 157
7.6. Alto contro basso 159
7.7. Verso una cultura tedesca della Rete 161
7.8. Celebrare la blogosfera francese 165
7.9. La scomparsa della blogosfera irakena 171
8. La radio dopo la radio: dalle radio pirata agli esperimenti
su internet 183
8.1. Le radio libere di Amsterdam 184
8.2. L’avvento dei media sovrani e indipendenti 186
8.3. La scomparsa della radiofonia libera 189
8.4. Radio online come bivacco da campo 192
8.5. La radiofonia pirata diventa globale 194
9. L’estetica del video online, ovvero l’arte di guardare i database 201
9.1. Dopo il crollo della Grande Narrativa 203
9.2. Proattività e visualizzazione sociale 205
9.3. Per una teoria critica del video online: Video Vortex 209
9.4. Il futuro del video 212
10. La vita googlizzata nella società della consultazione online 219
10.1. Le isole della ragione di Weizenbaum 221
10.2. Aggregare tutto e ogni cosa 225
10.3. Rimostranze dal cuore dell’Europa 228
10.4. Analisi dei motori di ricerca nord-americani 230
11. L’organizzazione delle reti per l’ambito culturale e politico 237
11.1. L’attivismo da salotto 240
11.2. L’attivismo offline 243
11.3. Dare uno scopo all’attivismo 245
11.4. L’attivismo delle reti organizzate 248
VIII Ossessioni collettive
12. La tecno-politica di WikiLeaks 263
12.1. I pesci piccoli gonfiano i muscoli 264
12.2. Andare oltre il dibattito tra contenuto e vettore 266
12.3. Le politiche dei capoccioni 269
12.4. Le reti post-rappresentative 270
12.5. Il nuovo paradigma del whistleblower 274

PREFAZIONE DI VITO CAMPANELLI
Con questo nuovo saggio Geert Lovink, uno tra i principali teorici dei nuovi media, prosegue il suo impegno di affrontare in chiave critica i principali nodi tematici delle culture di rete. Nello specifico di Ossessioni collettive, quarto saggio della serie, il focus è sulla seconda parte dell’era Web 2.0: lo sguardo si estende dunque oltre la blogsfera (analizzata nel precedente Zero Comments) per abbracciare le parabole descritte da Google, YouTube, Wikipedia, Facebook, Twitter (e il suo presunto ruolo nelle cosiddette rivoluzioni del Nord Africa e del Medio Oriente), WikiLeaks ecc. Siamo in presenza di un’opera che, con linguaggio da esperto recensore, potrei definire «matura», ciò a mio avviso è vero in un duplice senso: da un lato segna un momento di piena maturità nel percorso intellettuale di Lovink, dall’altro riflette su una fase di sviluppo dei network digitali – quella alla quale si è soliti riferirsi con la sigla 2.0 – che può forse ritenersi compiuta, in particolare ove si consideri che le nuove modalità di accesso alla Rete, sempre più basate su mobile apps e walled gardens, prefigurano la fine dell’esperienza del Web così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi anni. La cultura che dagli ambienti online si è estesa fino a colonizzare i principali ambiti sociali contemporanei ha alimentato la fiamma che brucia ogni esistenza nel falò dell’incessante lavoro di costruzione della propria identità. Questo scenario, nel quale all’ossessione per l’identità fanno da contraltare la frammentazione e il sovraccarico di informazioprefazione di Vito Campanelli X Ossessioni collettive ni, rappresenta l’approdo della deriva sociale che ha investito i network digitali – ed è proprio collocandosi in tale preciso punto che Lovink dà vita alla propria analisi critica. Il direttore dell’Institute of Network Cultures di Amsterdam si interroga innanzitutto sulla natura dei network digitali, osserva dunque che se Internet, in quanto infrastruttura di comunicazione distribuita, è stata a lungo celebrata per il suo potenziale in grado di superare le asimmetrie di tipo top-down tipiche dei media broadcast e delle democrazie rappresentative, oggi l’idea che si tratti di una sfera eccezionale non sottoposta a regole è evaporata, e con essa il modello libertario che ne aveva sostenuto la nascita. Piattaforme come blog, forum di discussione e siti di informazione partecipativa, il fenomeno del citizen journalism sono stati considerati una nuova frontiera della libertà di parola, al punto da credere che una connessione a Internet potesse bastare per partecipare attivamente alla vita politica. Gli eventi degli ultimi anni hanno messo a dura prova tali convinzioni, si impone quindi uno sforzo di riflessione critica che aiuti a chiarire, per esempio, l’attuale portata di concetti quali partecipazione democratica e sfera pubblica. I nuovi media hanno definitivamente superato la propria fase introduttiva, ma continuano a scontrarsi con le strutture sociali e politiche, come le aziende e le istituzioni della conoscenza (tradizionale). Negli ultimi dieci anni, l’implementazione di reti di computer ha drasticamente alterato le attività economiche quotidiane e i flussi di lavoro del mercato, anche se a livello decisionale le procedure continuano ad aggrapparsi a vecchi alberi organizzativi che evidenziano un’inevitabile tendenza verso la centralizzazione. Il paradossale scenario contemporaneo è in definitiva caratterizzato, da un lato, dal rafforzamento delle strutture di potere e dall’aumento delle funzioni di controllo (tanto nei mondi reali quanto in quelli virtuali) e, dall’altro, da ambienti online nei quali decine di milioni di utenti lavorano, flirtano, chattano e giocano indifferenti a ciò che genitori, insegnanti, giornalisti o celebrità hanno da dire sui social media. Di fronte a tali contraddizioni l’interrogativo sul quale Lovink ci invita a riflettere è: la cultura di Internet supererà mai la sua fase adolescenziale? Prefazione XI Il merito principale di Lovink, al di là dell’ampiezza dell’analisi, che pure – rileva McKenzie Wark – abbraccia un orizzonte esteso al recente passato, al presente più attuale e finanche ai futuri mancati per una virgola, è piuttosto da individuare nel peculiare approccio che permette di aprire nuove strade alla critica sociale dei media contemporanei. Il teorico dei media olandese infatti prescinde dalla necessità di identificare il nemico o, in mancanza, di inventarne uno a partire dal quale costruire par des différences il proprio pensiero critico. In questa maniera Lovink evita le semplificazioni nelle quali incorre ogni dialettica degli opposti, non lasciandosi irretire né dal cyber-ottimismo alla Shirky, né dal cyber-pessimismo alla Keen. Più che mettersi contro o a favore di questo o quel medium, Lovink ha scelto di stare nei media, di vivere a fondo i network sociali – ed è proprio da questa posizione che osserva e riflette ma anche esperisce. Fa sue le contraddizioni intrinseche della Rete e attraverso pratiche quotidiane e una continua sperimentazione riesce ad andare oltre il presente stato delle cose. Di Lovink, più che di altri, si può dire che la riflessione teorica va di pari passo con la pratica attiva, per l’appunto definita «teoria critica in azione». Basta dare una occhiata all’indice, per convincersi che molti argomenti di questo libro sono l’approfondimento di spunti emersi durante le numerose conferenze organizzate negli ultimi anni dall’istituto diretto da Lovink: da My Creativity a Video Vortex, da Winter Camp a Society of the Query, a Critical Point of View ecc. Lo stesso stile narrativo che spesso caratterizza le pagine dello studioso olandese è di conseguenza da attribuire, più che a una mera scelta stilistica, all’impossibilità di separare la riflessione dal ricordo di esperienze personali e dal racconto di storie, di personalità e di realtà vissute in prima persona. Siamo in definitiva di fronte a un pensiero non contemplativo ma profondamente partecipe delle realtà osservate, al punto che leggere Lovink significa dare inizio a un viaggio che conduce a toccare i momenti più significativi della breve saga delle culture di rete. Lovink, peraltro, può ben essere considerato un uomo di più mondi: nato infatti in Europa, ha completato la propria formazione in AustraXII Ossessioni collettive lia prima di tornare nuovamente nel Vecchio Continente e anche i suoi affetti più intimi lo legano al continente oceanico. Queste vicende personali sono a mio avviso molto importanti, esse hanno infatti un riflesso decisivo nell’approccio teorico di Lovink, in particolare la perenne necessità di confrontarsi con l’altro emisfero del proprio orizzonte mentale mi sembra possa essere considerata alla base della sua formidabile capacità di superare gli steccati del pensiero e di ibridare tra loro tradizioni apparentemente lontane. Il rifiuto di ogni integralismo lo porta ad andare oltre la sua stessa formazione marxista: niente funambolismi dialettici, se il materialismo storico si rivela inefficace a spiegare la specificità del contemporaneo si può tranquillamente lasciarlo in soffitta, chissà che non torni utile in futuro…, e del resto – come lui stesso ammette – si è rivelata del tutto fallimentare l’idea di fondare una teoria critica di Internet nel solco della tradizione della Scuola di Francoforte. Un’opinione per nulla isolata che è possibile connettere alle analoghe perplessità emerse già nei primi anni Ottanta, anche se in relazione a differenti media. Come non ricordare per esempio che per Flusser l’automazione della fotografia rende obsoleta una critica culturale che provi a decifrare in ogni immagine gli interessi di coloro che detengono il potere mentre andrebbe indagata l’essenza degli apparecchi ossia proprio la loro automaticità. Argomento questo che, a maggior ragione, può essere riproposto in relazione alle moderne tecnologie della comunicazione che, per loro intrinseca natura, tendono a dar vita a routine automatiche sempre più indipendenti dalla volontà e dagli interessi dell’essere umano. L’approccio critico dello studioso olandese prende le distanze dalla domanda – variamente formulata e ripetuta da Carr, Keen, Schirrmacher, Lanier ecc. – sul come Internet e i media digitali influenzino la gente; Lovink ritiene infatti che il «dibattito su internet e società non dovrebbe essere né “medicalizzato” né moralizzato». Occorre invece assumere il punto di vista delle pratiche quotidiane degli utenti per provare a capire che cosa la gente sta facendo con questi media. Nel capitolo introduttivo si legge: «Intendo dare risalto a quegli aspetti quotidiani Prefazione XIII nell’uso di internet che spesso passano inosservati. Affronterò la transizione alquanto invisibile dall’uso di internet come strumento alla creazione di “culture degli utenti” diffuse e collaborative che iniziano a evidenziare caratteristiche tutte proprie, infondendo così la vita all’interno del mondo tecnologico. È in quest’ecologia relativamente nuova che le idee trovano terreno fertile per l’immediato processo di tentativi ed errori. Questi concetti possono essere considerati qualcosa di astratto, ma nel contesto di vivaci culture di Rete emergono dall’interno e non cadono certo dall’alto». Ovviamente questo non significa ignorare le strutture e i poteri incarnati nelle tecnologie, tutt’altro, si tratta di un invito a sollevare per un momento gli occhi dalla «realtà sociale» per dedicarsi alla contemplazione di un panorama più ampio che, in quanto tale, possa comprendere l’imprescindibile aspetto tecnico (del quale è necessario mettere continuamente in discussione le falsificazioni), ma anche la formulazione di nuovi concetti (o la riformulazione di vecchi) in grado di tradursi in architetture tecnologiche, in codice, in pratiche quotidiane, in cultura, in consuetudini, in nuove forme organizzative e imprenditoriali. In questa prospettiva l’analisi critica assume la fisionomia di «un’arte manuale necessaria» che predilige il terreno delle pratiche sociali (con le parole di de Certeau «ciò che avviene sotto la superficie della tecnologia e turba il suo gioco» ), i dati empirici e le nuove metodiche (digitali) di ricerca (ad esempio l’approccio proposto da Manovich con la formula cultural analytics), mentre si sottrae alle paludi speculative dell’accademia e delle istituzioni culturali tradizionali che – come osserva Lovink – si sono mostrate del tutto inadeguate rispetto «alla fluidità degli oggetti mediatici di questa nostra era del tempo reale». Soprattutto, Lovink ritiene indispensabile svincolarsi dall’ipoteca dei cultural studies e dalla «consumata dialettica del vecchio e del nuovo», in quanto, invece di insistere sulle generiche affinità con carta stampata, radio e TV, sarebbe opportuno concentrarsi sulle specificità delle piattaforme emergenti – in estrema sintesi: bisogna iniziare a trattare i media digitali come oggetto di studio autonomo. XIV Ossessioni collettive Sono pienamente concorde – e mi permetto di aggiungere che sarebbe indispensabile compiere anche un ulteriore passo, forse più radicale – riguardo alla necessità di spezzare la linearità con il passato. Occorre, in altre parole, attuare una frattura netta con l’umanesimo, il che significa svincolare (finalmente!) i media digitali dalla modernità e da prospettive che insistono sulla centralità dell’essere umano. Se si ammette che è giunto il momento di rendersi conto che le macchine hanno una propria autonomia, andrebbero di conseguenza incoraggiati quegli approcci disponibili a considerare le macchine alla stregua di quelli che Abruzzese definisce «dispositivi anti-moderni» operanti attraverso continui «sconfinamenti al di là dell’umano». Con un’affinità di pensiero rispetto a Lovink che può apparire sorprendente, soprattutto ove si consideri lo scarto anagrafico, il sociologo italiano osserva che è solo «andando oltre i saperi e i paradigmi delle culture storiche che le hanno prodotte» che le innovazioni «possono trovare modi locali, circoscritti, di venire usate, socialmente applicate, accolte» . Un ruolo cruciale nel processo che proprio attraverso le pratiche sociali quotidiane ha condotto ad appropriarsi della Rete (abitandone gli spazi, incarnandone le tecnologie ecc.), è stato svolto indubbiamente dai blog, ai quali va riconosciuto il merito di aver colmato il solco tra Internet e società. Proprio grazie al fenomeno dei blog abbiamo superato la fase delle cyberculture degli anni Novanta e tutti insieme ci siamo entusiasticamente tuffati nell’era del Web 2.0, ma – osserva il teorico olandese – al momento di pagare il conto abbiamo scoperto che il prezzo era piuttosto alto: la banalizzazione di quelle spinte a un cambiamento dal basso che avevano dato vita al fenomeno; i blog infatti privilegiano «l’aspetto visivo sull’introspezione, la documentazione priva di riflessione e l’archiviazione senza internalizzazione». Come sottolinea Lovink, nella cornice dell’attuale capitalismo comunicativo ciò che conta è solo l’apparenza, mentre non ha alcuna rilevanza la questione dell’esistenza di un’identità, vera o immaginaria che sia, al di sotto della superficie di ciò che si vede. Lo schema proposto dallo studioso olandese al riguardo mi sembra di rara efficacia: «la Prefazione XV gente produce le proprie identità tramite i mezzi di comunicazione in rete. Internet è un medium per l’esperienza di massa, pur se altamente differenziata e singolarizzata. Il blog si pone come la tecnologia che veicola quest’esperienza». Se ne deduce che il pericolo principale che attanaglia le pratiche mediali quotidiane è la caduta nell’autoreferenzialità e in effetti non è così azzardato sostenere che il dialogo nei network sociali contemporanei appare più che altro un’illusione; in particolare, come sostiene Lovink in Zero Comments, è proprio la blogsfera, che per sua natura dovrebbe essere uno spazio polifonico, a presentarsi invece come un ambiente chiuso. Per il teorico olandese, i blog danno vita a comunità di persone che la pensano allo stesso modo e ciò finisce per confinare il dibattito all’interno di nuvole di blog omogenei – in una siffatta situazione, l’esclusione del dissenso non è nemmeno necessaria, in quanto nessuno posta sui blog degli avversari. Ecco proprio questo è per Lovink il limite di tali media: la possibilità di rispondere è spesso completamente eliminata ma, anche quando ciò non accade, il gesto di commentare un blog con il quale si è in disaccordo è addirittura ritenuto insensato. In definitiva, per l’autore di Zero Comments, il dibattito si articola all’interno di nuvole omogenee che restano chiuse in se stesse e che si negano a ogni confronto con opinioni divergenti o di segno opposto. Se dunque è vero che gli algoritmi software alla base dei network sociali sollecitano tutti a dare forma pubblica alle proprie opinioni, è altrettanto indiscutibile che sempre più raramente si assiste a incontri, a meno di non considerare tali l’adesione acritica consentita dal tasto «Mi piace». Nello scenario che si apre all’osservazione critica, la blogsfera, e in generale i network sociali, sembrano sfuggire a ogni dialettica: tutti scrivono ma nessuno legge quello che gli altri hanno scritto; tutti esprimono la propria opinione ma nessuno si richiama alle opinioni di segno opposto espresse da altri; tutti sono impegnati a incrementare il numero dei propri amici ma nessuno coltiva l’ipotesi del confronto/scontro con eventuali nemici. Muovendo da tale consapevolezza risulta piuttosto agevole comprendere il ripetuto richiamo di Lovink alla necessità di un impegno XVI Ossessioni collettive comune affinché siano reintrodotte condizioni autenticamente dialogiche ovvero tali da sottrarre i network alla propria intrinseca inclinazione all’autoreferenzialità. Ciò è possibile, in particolare, se si abbandona l’attuale simulacro di socialità basato su legami deboli e quindi, nello specifico dei network sociali, se si contrasta il funzionamento di quegli algoritmi che inducono a esplorare gli estremi confini della socialità – mi riferisco ai margini popolati da persone che non conosciamo veramente (amici di amici) – in favore del rafforzamento di quei legami sociali reali che possono beneficiare enormemente dell’organizzazione in rete (organized networks secondo la definizione di Lovink e Rossiter) per gestire relazioni altrimenti impossibili (a causa di barriere spaziali, temporali ecc.). È interessante rilevare come proprio una diversa valutazione della socialità derivante da legami deboli sia alla base delle differenti posizioni che nell’ambito della teoria critica di Internet dividono chi – come Clay Shirky – enfatizza le opportunità, connesse alle nuove forme di socialità, di dar vita a collaborazioni su scala globale e a nuove forme di condivisione della conoscenza in grado di capitalizzare il tempo libero (surplus cognitivo) di un’umanità sempre più interconnessa, e chi all’opposto – come Jodi Dean – rileva la natura tautologica dell’espressione social media e nega con forza che di fronte a tali manifestazioni sia possibile parlare di socialità: i media sociali sono infatti individualistici e competitivi e, come tali, del tutto proni al paradigma liberista; prova ne sia che anche molte delle prospettive critiche su Internet non fanno altro che insistere con rivendicazioni di valori tipicamente liberisti quali la privacy, una maggiore libertà, decentralizzazione ecc. Per la studiosa statunitense i veri problemi da affrontare sono invece l’incessante moltiplicazione, la dispersione e l’isolamento sociale prodotti dalla decentralizzazione dei flussi nei network digitali e dalla precarizzazione delle vite indotta dalle politiche liberiste. Lovink è sicuramente più vicino alla posizione della Dean, con la quale ha dato vita a un intenso rapporto di collaborazioni, tanto che (muovendo dalla rilettura di alcune tesi centrali in Baudrillard, in primis Prefazione XVII quella dell’implosione del sociale nei media) sottolinea come nei social network il termine sociale sia diventato cool ed è dunque stato neutralizzato. Ciò che possiamo riscontrare nei social media è infatti un simulacro di socialità che si manifesta prevalentemente in rappresentazioni di fatti sociali, in visualizzazioni grafiche di reti sociali ecc. A ben vedere si tratta soprattutto di una strategia opportunistica per la gestione di immense moli di dati digitali (big data) che gli utenti sono continuamente chiamati a valutare, commentare, recensire, indicizzare, segnalare ecc. Con efficace metafora Lovink osserva che siamo tutti diventati «utenti-operai che lavorano per l’ape regina Google». Siamo incapsulati in «reti prive di scopo» e «divoratrici di tempo» – «e così veniamo risucchiati sempre più in profondità in una caverna sociale senza sapere cosa stiamo cercando». Un altro punto di prossimità tra Lovink e Dean è rappresentato dall’analisi del meccanismo di cattura in atto nei social network: nella visione della studiosa di teoria politica statunitense è centrale il tema delle pulsioni (drivers), in particolare la teoria lacaniana del montaggio come pulsione viene rivista e attualizzata con riferimento ai mashups e ai remix. Questi danno vita al reale movimento che anima i contemporanei network dell’intrattenimento e della comunicazione; in tali circuiti le pulsioni circolano tutt’intorno producendo soddisfazione di bisogni primari, quali quello alla comunicazione, anche se falliscono il proprio obiettivo non essendo più capaci di concepire un oggetto del desiderio. La legge del desiderio cede dunque il passo a una logica della pulsione che si manifesta in una continua messa in scena (la ripetizione senza fine che caratterizza la cultura del remix) di quel vuoto che non è più possibile colmare. Per Lovink, uno dei principali paradossi della società contemporanea è costituito dal fatto che tutti vogliamo «essere unici» eppure siamo mossi da desideri identici; ciò ha reso agevole il lavoro della classe imprenditoriale del Web che ha costruito le piattaforme di social networking proprio sulla base della convinzione che siamo tutti spinti dall’«incestuoso desiderio di essere proprio come i nostri amici». Grazie alle modalità non lineari dell’esperienza, XVIII Ossessioni collettive consolidatesi in forza di consuetudini nelle quali l’accesso alla cultura è sempre più mediato da database (per Lovink è proprio questa l’autentica costante culturale della fase iniziale del XXI secolo), oggi c’è molto più coinvolgimento degli utenti. Non si tratta però solo di participatory culture, nel senso di prosumers che creano contenuti e li immettono nel flusso digitale, quanto piuttosto di individui che incorporano oggetti mediali (video, immagini, brani musicali ecc.) nelle proprie vite nel momento stesso in cui li condividono, li associano a un altro oggetto mediale, li commentano (dove commentare ha perso la connotazione orale e testuale propria delle precedenti ere mediali e sta oggi a indicare qualsiasi possibile reazione provocata da un oggetto culturale). Siamo, in definitiva, di fronte a una gigantesca «macchina autopromozionale » trainata dal desiderio dei consumatori e alimentata dal «marketing dell’io» che scatena l’«inarrestabile impulso ad ammassare sempre più cose – da amici e amanti fino a prodotti griffati, servizi e altre brevi esperienze semi-esclusive». In tale scenario – osserva giustamente Lovink – «il passaggio dal link al “mi piace” come moneta sonante prevalente sul Web simbolizza lo strappo nell’economia dell’attenzione dalla navigazione basata sulla ricerca all’ambito autoreferenziale o recintato nei social media». Nei social network l’utente visita e si iscrive ai gruppi ai quali i propri amici hanno accordato preferenza, naviga i siti preferiti da altri utenti che li hanno aggiunti ai propri shared bookmarks, predilige i video e i brani musicali al top delle categorie most viewed e most ranked, nelle tag clouds clicca sulle parole con un corpo maggiore, entra nelle chat-rooms con più ospiti, nei forum contribuisce ai topics con un più elevato numero di post, fruisce continuamente di contenuti related (ovvero proposti automaticamente da un software perché archiviati in database secondo categorie affini a quella del contenuto originariamente consultato dall’utente), preferisce le pagine che figurano tra i primi dieci risultati del motore di ricerca consultato, legge articoli da rassegne stampa che altri hanno assemblato, e così via in una continua routine autoreferente. Come rileva Lovink, «la massima codificata qui è: voglio vedere ciò che vedi tu. Prefazione XIX […] Quelli che cercano profondità stanno semplicemente abbaiando all’albero sbagliato». In uno scenario che si caratterizza per la straordinaria stratificazione di contenuti in immensi database è ben presto emersa l’impossibilità di interagire con tale complessità, se non attraverso il tramite rappresentato da quell’opaco strumento che sono i motori di ricerca. A tale tematica Lovink ha dedicato grande attenzione, si tratta infatti di un nodo cruciale in una società nella quale il ricercare informazioni è diventata una delle occupazioni prevalenti (di qui la definizione di society of query) ma il cui approfondimento sconta tutte le difficoltà derivanti dal confronto con un oggetto «astratto e invisibile»; il ricercare infatti ha a che fare, in qualche modo, con il subconscio: si va su un motore di ricerca, si digita qualcosa, si clicca e si è già altrove. Non c’è il tempo di domandarsi se il risultato della ricerca sia una fotografia oggettiva della Rete oppure risponda alla logica del software che regola le ricerche, agli interessi economici della società che gestisce il motore di ricerca, agli interessi politici del paese nel quale mi trovo nel momento in cui effettuo la ricerca ecc. Come è facile intuire si tratta invece di domande la cui urgenza è resa ancora più drammatica dalla posizione di assoluto monopolio assunta da Google nell’ambito dell’economia dell’informazione. La tendenza a rimuovere ogni livello critico nell’atto di effettuare ricerche online è peraltro accentuata da dispositivi come i tablet che, permettendo ricerche vocali, eliminano anche quel minimo di consapevolezza che deriva dal confronto con l’interfaccia del motore di ricerca: urlo (chissà perché tendiamo ad alzare la voce quando parliamo con le macchine?) al mio tablet «ristoranti ad Amsterdam» ed ecco aprirsi una pagina con una selezione delle proposte di esperienze culinarie più allettanti offerte dalla città olandese. Per uscire da tale impasse Lovink ci invita a guardare dentro quelli che Flusser definirebbe black boxes ovvero apparati tecnologici che utilizziamo per relazionarci gli uni con gli altri senza avere alcuna consapevolezza del loro reale funzionamento. Non sappiamo cosa c’è dentro gli oggetti tecnologici che utilizziamo, conosciamo molto poco delle XX Ossessioni collettive strategie economiche e politiche che guidano l’espansione infinita di giganti quali Google o Facebook, ma proprio tale condizione di ignoranza deve spingerci a sviluppare un maggiore senso critico rispetto alle interazioni con la tecnologia che scandiscono il tempo delle nostre giornate. Ciò è possible in particolare attraverso l’attivismo mediatico, un concetto molto caro a Lovink (che già nel 2003 scrive insieme a David Garcia un testo dal titolo The ABC of Tactical Media), che io tendo a interpretare in senso letterale come essere attivi con i media. Essere attivi significa mettere le mani nei media e inventarsi utilizzi diversi da quelli ai quali sembrano essere preordinati, uscire dall’autoreferenzialità rilanciando continuamente il dialogo, neutralizzare le macchine impegnandole in compiti che non potranno mai portare a termine, sganciarsi dagli infiniti flussi di ripetizione-imitazione inserendo nel modello replicato (remixato) elementi di dissonanza, disorientare, intimorire, soprattutto non rassicurare. Queste pratiche, come le tante altre che è possibile architettare, sono tutte riconducibili al concetto di utilizzo tattico dei media che risale (almeno) a de Certeau e che Lovink fa proprio adattandolo di volta in volta ai media contemporanei: la radio prima, Internet poi. Ed è estremamente interessante constatare che lo studioso olandese non si stanca mai di indicare, nelle pratiche che quotidianamente i comuni cittadini della Rete si inventano, il terreno privilegiato al quale rivolgere l’attenzione nella difficile ricerca di alternative in grado di invertire la polarità negativa dei network sociali. Del resto non è forse vero che – come sostiene Abruzzese – è nel trivio che si determinano gli usi sociali della tecnologia? In definitiva Lovink è portatore di una prospettiva che – a mio avviso – sarebbe estremamente salutare per ogni teoria critica dei media, essa si fonda sulla convinzione che gli utenti non sono da considerare vittime predestinate e senza scampo nell’agone mediatico, essi sono invece soggetti attivi, dunque attori sociali in grado di liberare le proprie capacità critiche e con queste influenzare – o meglio – provare a influenzare i processi attraverso cui la tecnologia prende forma. Naturalmente non c’è da farsi grandi illusioni, la sproporzione delle forze in campo è Prefazione XXI enorme, ma ciò non deve scoraggiare dall’individuare e dall’esplorare le fenditure che si aprono anche in sistemi apparentemente invulnerabili. «La battaglia per internet non è ancora chiusa» – scrive Lovink – e in effetti finché ci sarà qualcosa in gioco, gli individui, attraverso le proprie pratiche quotidiane, potranno continuamente inventarsi nuove possibilità, come nel caso – che trovo assolutamente emblematico – di quegli attivisti siriani che sul popolare Google Maps cambiano i nomi delle strade (ciò è possibile perché Google, in ossequio alla filosofia del crowdsourcing, permette agli utenti di aggiornare, attraverso il servizio Map Maker, la toponomastica delle proprie mappe; in pratica se più utenti indicano lo stesso nome di un luogo quell’indicazione viene ritenuta affidabile e la mappa aggiornata). In questa maniera le strade, invece di glorificare figure vicine al regime, diventano simboli commemorativi degli eroi caduti per la libertà. Certo forme di attivismo mediatico come questa non cambieranno forse le sorti del paese arabo e, meno che mai, quelle del mondo; ma sarebbe un grande errore ignorarle: esse infatti sono in grado di favorire una consapevolezza globale sulla tragedia che vivono quotidianamente gli oppositori del regime siriano. A mio avviso si tratta di iniziative che operando a un livello estetico sono in grado di produrre un impatto mediatico ben maggiore, che so, dell’ennesimo sito di denuncia contenente un diluvio pornografico di immagini di dissidenti siriani massacrati dal regime, immagini alle quali, nella cornice di un pianeta iper-spettacolarizzato e iper-reale (Baudrillard, Žižek, Perniola ecc.), si diventa ben presto assuefatti e si finisce per non prestare più alcuna attenzione. Spostando repentinamente il focus dall’estetica come pratica sociale all’analisi socio-politica bisogna riconoscere che anche nel caso dell’hacking di Google Maps è in astratto possibile applicare il «paradigma di Morozov » e dunque ritenere che in esso sia palese il ruolo strategico di Google nella congiura imperialista occidentale contro i governi autoritari e, nello specifico, contro la Siria. Ma, se solo ci si ferma a riflettere su un qualsiasi fatto di segno opposto, come per esempio la circostanza che grazie a Google Earth i paesi nemici degli Stati Uniti hanno potuto localizzaXXII Ossessioni collettive re le basi segrete americane, ecco che il quadro si fa all’improvviso traballante, i confini tendono a sfocarsi mentre diventa chiaro, ancora una volta, che la realtà modellata con le pratiche rese possibili dalle moderne tecnologie è di gran lunga più complessa delle semplificazioni alle quali conduce l’opposizione diadica tra cyber-ottimisti e cyber-pessimisti.

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