domenica 30 dicembre 2012

Diaz: un cinema DA denuncia

da Filmidee.it
di MATTEO POLLONE











Nella scena in cui compare per la prima volta ne Il Caimano, Nanni Moretti rifiuta inizialmente d’interpretare il film su Berlusconi, giustificando così il suo diniego: “Tutti sanno già tutto su Berlusconi […] Chi voleva sapere sa, poi chi non vuole capire, dai… cosa vuoi informare di più? Si sa tutto […] c’è qualcosa nella vostra sceneggiatura che non mi convince […] C’è, lì, quello che il pubblico di sinistra vuole sentirsi dire”. Sgomberiamo subito il campo da ogni possibile equivoco (dovrebbe essere superfluo, ma visto il massiccio consenso che il film ha raccolto, spesso epidermicamente di natura ideologica, è meglio ribadire): per ciò che riguarda i fatti dell’irruzione nella scuola Diaz la sera del 21 luglio 2001 e le successive torture nella caserma di Bolzaneto vi è solo una parte con la quale ci si può e ci si deve schierare, senza se e senza ma, senza giustificazioni o contestualizzazioni di sorta, ed è ovviamente quella delle vittime, delle persone malmenate e portate di peso in caserma per essere torturate in tutta calma.

Ma Diaz non è realmente un film su Genova. È un film che non aggiunge nulla a ciò che si sa e che racconta la storia molto più confusamente di quanto non faccia, ad esempio, Carlo Lucarelli nella sua trasmissione dedicata ai tragici fatti in esame. È un film che non offre una lettura degli eventi, si limita a illustrarli con compiaciuta morbosità, sfruttandone le componenti spettacolari intrinseche in maniera cinica, amplificando tale cinismo nelle dichiarazioni rilasciate a giornali e televisioni, nelle quali il regista e i suoi attori e produttori si presentano come campioni di democrazia e indignazione, eroi coraggiosi che avrebbero sottratto all’oblio una storia secondo loro già dimenticata.

L’incipit del film ne dà subito la cifra, ne condensa l’essenza. Una bottiglia di vetro, lanciata da un manifestante, ruota su se stessa per poi infrangersi in terra. Un oggetto goffamente ricostruito al computer, così ridicolmente artificiale da risultare dissonante in un film che è stato presentato come una rigorosa ricostruzione dell’irruzione della polizia alla scuola Diaz di Genova. Un vezzo lezioso, che dovrebbe subito mettere in allarme. Soprattutto perché la bottiglia diventa un elemento ricorrente, funzionale alla comprensione degli avvenimenti, in quanto Vicari decide di non far procedere il suo film linearmente, ma di farlo costantemente ritornare indietro per poter seguire più personaggi e svelare passo passo la complessa rete di relazioni tra essi. È questa una delle scelte che inspiegabilmente ha fatto gridare al miracolo. Si è scritto molto, soprattutto in virtù di questa caratteristica, di Diaz come di un film “poco italiano”, addirittura vicino a Elephant. Quella bottiglia sta lì, come un cippo iscritto, ad ancorare il film alla sua limitata italianità, alla necessità di rendere tutto chiaro, pedestre, di prendere lo spettatore per mano e dirgli costantemente dove si trova, quando ci si trova e perché vi si trova, procedimento che rasenta il demenziale nel momento in cui si mostra la fabbricazione delle prove false, portate in mano in quella che è forse la scena più didascalica di un film che in quanto a pedanteria non lesina su nulla. Siamo proprio agli antipodi, ci sembra, rispetto all’ambiguità di Van Sant, che peraltro segue i suoi personaggi senza cercare facili identificazioni e soprattutto non primariamente in virtù del momento dell’esplosione di violenza, che in Diaz diventa invece il cuore spettacolare del film. Che senso può mai avere, quindi, questo continuo ritornare indietro? La risposta è ovviamente semplicissima: si tratta di dilatare allo spasimo l’attesa del pestaggio e il pestaggio stesso, di estendere a dismisura quella che è la scena madre del film, di prolungare la trepidazione dello spettatore nei confronti della violenza e del sangue. 

Vicari fa bene il suo compito: le vetture della polizia assumono la forma di un mostruoso serpente luminoso mentre corrono per le strade di Genova, e l’orchestrazione della sequenza dell’irruzione, con la fuga verso l’alto e i poliziotti corazzati che salgono le scale anticipati dalle grida e dai rumori, è sicuramente di facile presa. Le forze dell’ordine, come si diceva, non sono – se non per un paio di notazioni – personaggi. Non che lo siano gli stereotipi animati ai quali Vicari affida il ruolo dei protagonisti (il Giornalista Libero, la Bella Americana con la Chitarra, il Bell’Organizzatore Romantico, il Vecchio Compagno Saggio, etc.), ma per ciò che riguarda gli Sbirri il regista si limita a qualche ghigno malvagio sul volto (specie su quello di Alessandro Roja), che fa il paio con le figure brutte e unte delle alte sfere, personaggi che sembrano usciti da un poliziottesco di oltre trent’anni fa, le cui motivazioni sembrano solamente limitate a una connaturata quanto tranquillizzante perfidia. Vicari si bulla di voler seguire i fatti, ma poi struttura il film come una qualsiasi opera di finzione, addirittura con elementi speculari: il gruppo dei buoni ha il suo cattivo (il black block di colore [!]) e quello dei cattivi il suo buono, il personaggio di Santamaria che, in una scena emblematica, esprime bene l’ambiguità strisciante e vagamente assolutoria del film. Se il black block, nel finale, è pronto al pentimento e a farsi carico interiormente della violenza, il poliziotto buono è invece rassegnato alla violenza in cui è immerso. Nella sua ultima scena infatti, mentre è nel gabinetto dove poi sarà gettata la ragazza tedesca, egli sente provenire i rumori delle torture dai piani inferiori (gli inferi, evidentemente), ma non può fare nulla se non scrollare la testa e allontanarsi.

La Polizia è un Male senza volto e nome, una creatura gorgogliante contro cui nulla si può fare: è Hannibal Lecter, è un Gremlin che si è nutrito dopo la mezzanotte, un mostro malvagio ma affascinante, nella coreografia dell’implacabile salita delle scale della scuola, quando travolge coreograficamente tutto ciò che si trova davanti, come fosse il Nulla della Storia infinita. Ovviamente, attraverso questa scelta, invece di irrobustire il suo film, Vicari lo indebolisce ulteriormente. Le forze dell’ordine sono un’entità invincibile, la cui violenza invita alla rassegnazione. Questo è il limite principale, la colpa dell’opera: portare il pubblico a inorridire invece che a esasperarsi, ad accettare invece che a sollevarsi. Diaz è una storia di buoni e cattivi, che non ci dice nulla sui fatti di Genova. Appare in questo senso quasi disgustoso il lavoro di selezione fatto sui torturati dal regista e dai suoi collaboratori: si sceglie di raccontare la storia del personaggio (la giovane ragazza tedesca) che permette soluzioni spettacolari più efficaci, che consente un’immediata identificazione e indignazione.

A Vicari, quindi, solo sulla carta interessa realizzare un film di denuncia. Quello che realmente vuole fare ed effettivamente fa è poi solo un film d’azione, un robusto film spettacolare con qua e là qualche silenzio, qualche sospensione che fa molto “autore”. Un film girato come in Italia si girava oltre dieci anni fa (le inquadrature di Vicari ricordano quelle di Enza Negroni per Jack Frusciante è uscito dal gruppo, al punto che chi scrive per lungo tempo ha pensato che le scelte di regia fossero dettate da una volontà mimetica nei confronti del cinema realizzato negli anni in cui la storia si svolge) più vicino a Palermo Milano solo andata che agli illustri esempi del cinema civile italiano che si dice sia oggi (finalmente?) risorto. Diaz non è un apologo petriano né ha la radicalità del primo Rosi. È un film retorico nell’esposizione e nel tratteggio dei suoi personaggi, quindi conformista. È un film illustrativo, quindi conservatore. Rispetto a prodotti come L’orizzonte degli eventi, Vicari ha il solo merito di aver relegato le sua ambizioni al di fuori del film, nelle cartelle stampa e nelle chiacchiere con i giornalisti, dove Diaz viene presentato per quello che non è. Sullo schermo, scorre un poco meno che dignitoso film di genere, con qualche caduta di stile.

venerdì 28 dicembre 2012

Minority report

RAPPORTO DI MINORANZA E ALTRI RACCONTI - PHILIP K. DICK - FANUCCI EDITORE

io e Annie


e se fossimo solo un branco di gente che corre senza meta?

ESTRATTI DA AMORE E GUERRA DI WOODY ALLEN


movimento culturale [madrenalina]

ESTRATTO DA PROVACI ANCORA SAM DI WOODY ALLEN

Le squillo del club Mensa [Woody Allen]


Quando sei un investigatore privato, devi imparare a seguire il tuo istinto. Ecco perché quando un tremolante panetto di burro di none Word Babcock entrò nel mio ufficio e stese le sue carte sul tavolo, avrei dovuto fidarmi del brivido di freddo che mi era salito lungo la schiena.
“Kaiser?” Disse “Kaiser Lupowitz?”
“Così è scritto sulla mia licenza” confessai
“Deve aiutarmi, mi stanno ricattando, la prego!”
Era agitato come un cantante di un complessino di rumba.
Gli allungai sul tavolo un bicchiere e una bottiglia di whisky che tenevo a portata di mano per scopi non terapeutici.
“Supponga di rilassarsi e di raccontarmi tutto”
“Lei..non lo dirà a mia moglie?”
“Sputi il rospo Word, non prometto niente!”
Tentò di versarsi da bere ma si poteva sentire il tintinnio al di là della strada e la maggior parte del liquido finì sulle sue scarpe.
“Sono una che lavora” disse “manutenzione meccanica. Costruisco e riparo cicalini. Ha presente quegli scherzetti che danno la scossa alla gente quando ti stringono la mano?”
“si, allora?”
“piacciono molto ai funzionari, specie a wall street”
“venga al sodo!”
“viaggio molto. Sa com’è, da solo. Oh non è quello che pensa lei. Vede Kaiser, fondamentalmente sono un intellettuale. Certo un uomo può incontrare tutte le pupe che vuole, ma quelle davvero intelligenti non sono così facili da trovare su due piedi”.
“Continui..”
“Bè vengo a sapere di questa ragazza. Diciotto anni. Studentessa al Vassar. Per una certa cifra viene a discutere di qualsiasi argomento, Proust Yeats o antropologia. Scambio di idee. Capisce dove voglio arrivare?”
“Mhh, non esattamente!”
“Voglio dire mia moglie è fantastica non mi fraintenda. Ma non discuterà mai di Pound con me. O di Eliot. Non lo sapevo quando l’ho sposata.
Vede ho bisogno di una donna che sia mentalmente stimolante, Kaiser. E sono disposto a pagare. Non voglio un legame Voglio una rapida esperienza intellettuale e poi che la ragazza se ne vada. Cristo Kaiserr sono un uomo felicemente sposato!”
“da quanto dura questa storia?”
“Sei mesi. Ogni volta che mi prende quella voglia telefono a Flossie. E’ una maitresse con un master in letteratura comparata e lei mi manda una intellettuale, capisce?”

Così, era uno di quei tipi con un debole per le donne brillanti. Provavo pena per quel povero stupido. Immaginai che ci fossero molti altri stupidi nella sua posizione affamati di un po’ di comunicazione intellettuale con l’altro sesso e disposti a pagare per averla.

“Adesso minaccia di dire tutto a mia moglie!” disse
“Chi?”
“Flossie! Hanno messo le microspie nella stanza del motel. Hanno delle registrazioni dove discuto di “La terra desolata” e “Stili di volontà radicale”..ehm…entrando a fondo negli argomenti.
Vogliono diecimila dollari o vanno da mia moglie! Kaiser deve aiutarmi! Mia moglie morirebbe se sapesse che quassù non mi eccita!”

Il vecchio racket delle ragazze squillo. Avevo sentito dire che i ragazzi del distretto stavano indagando su qualcosa che c’entrava con un gruppo di ragazze colte, ma non avevano prove.

“Mi chiami Flossie a telefono”
“Cosa?”
“Accetto di occuparmi del suo caso. Ma prendo cinquanta dollari al giorno più le spese.”
“sempre meno di diecimila dollari”

Sollevò la cornetta e fece il numero. Presi io la cornetta e parlai. Pochi secondi dopo rispose una voce vellutata e le dissi cosa avevo in mente. “So che può aiutarmi in un ora di buona conversazione…”
“Certo. Cosa le piacerebbe?”
“Vorrei discutere di Melville”
“Moby Dick o romanzi brevi?”
“Qual è la differenza?”
“Il prezzo”
“Quanto vuole?”
“Cinquanta forse cento dollari per Moby Dick. Cento dollari sicuri per una discussione comparata Melville-Hawtorne”
“La cifra va bene” Le diedi il numero di una stanza al Plaza.
“Bionda o mora?”
“A sorpresa” e attaccai.

Mi preparai e ripassai le dispense del Monarch College.
Quando arrivai trovai una rossa che era impachettata nelle sue brachette come due grandi cucchiaiate di gelato a vaniglia.
“Ciao, sono Sherry”

Sapevano davvero come eccitare la tua fantasia. Lunghi capelli lisci, borsa di pelle, orecchini d’argento, niente trucco.
“Cominciamo?” dissi indicandole il divano.
Accese una sigaretta e attaccò. “Penso che potremmo cominciare da Billy Budd come la giustificazione di Melville del comportamento di Dio nei confronti dell’uomo n’est ce pas?
“E non nel senso miltoniano!”…stavo bluffando, volevo vedere se abboccava.
“No. A Paradiso perduto, manca il fondamento di pessimismo”
Aveva abboccato.
“Penso che Melville abbia riaffermato le virtù dell’innocenza in un senso ingenuo eppure sofisticato”
La lasciai continuare. Aveva a malapena diciannove anni ma aveva già sviluppato la navigata naturalezza della pseudointellettuale. Snocciolava le sue idee ma era tutto meccanico.
Parlammo per un ora circa poi disse che doveva andare. Si alzò e le porsi un centone.
“Grazie tesoro”
“Sai nel mio portafoglio ce ne sono altri di centoni..”
“cioè?”…avevo stuzzicato la sua curiosità
“Cioè metti caso che io voglia dare una festa in cui tipo due o tre ragazze mi parlassero di Choamsky?”
“Oh. WOW!”
“Devi parlare con Flossie”
Era arrivato il momento di stringere. Mostrai il mio distintivo da investigatore privato e la informai che era in arresto.
“Cosa?”
“Sono uno sbirro cara, e discutere di Melville a questi prezzi è articolo 802. Potresti finire dentro”
“Bastardo!”
“Vuota il sacco bimba, a meno che tu non voglia raccontare la tua storia in ufficio e non credo che molti vorranno sentire le tue versioni”
Cominciò a piangere. “Non portarmi dentro Kaiser, mi servono i soldi per il master! Non mi hanno dato la borsa di studio, Cristo!”
Venne fuori tutto, origini a Central Park, campeggi estivi socialisti, la vedevi fare le file alle biblioteche o annotare frasi sotto libri di Kant. Solo che poi aveva presto una strada sbagliata.
“Mi servivano soldi e un giorno un amico mi disse che un uomo sposato voleva parlare un po’ perché la moglie non era molto profonda. Lui era un amante di Blake e la moglie non era all’altezza. E accettai per una certa somma. All’inizio fingevo molto ma a loro non importava. Poi mi dissero che ce n’erano altri.
In realtà sono già stata arrestata. Mi beccarono a leggere Commentary in un auto parcheggiata e un altro paio di volte. Alla prossima finisco dentro…”
“Allora portami da Flossie”
“La libreria dello Hunter College fa da copertura”
“Come quei posti da scommesse nei retrobottega dei barbieri”

La lasciai libera ma le dissi di rimanere in città.
Entrai nella libreria dello Hunter College.
Finsi di chiedere dei libri rari, poi dissi “Mi manda Sherry”
Pigiò un bottone e da una parete di libri si aprì quel luogo di piacere che era da Flossie.
Tappezzeria rossa e arredamento vittoriano per creare l’atmosfera.
Pallide ragazze con gli occhiali dalla montatura nera oziavano sui divani sfogliando i classici.
Una bionda mi fa l’occhiolino e sussurrandomi un autore inglese mi fa segno a una stanza al piano superiore…Smerciavano un po’di tutto.
Per cento dollari in più potevi relazionarti un po’ in più senza però avvicinarti troppo.
Per altri cento una ragazza ti prestava i suoi dischi di classica veniva a cena con te e simulava di stare male.
Per il triplo veniva a prenderti un ebrea magra coi capelli neri legati fuori al Museo d’arte, ti faceva leggere la sua tesi, ti coinvolgeva sulle tesi di Freud sulla donna e poi fingeva un suicidio a tua scelta.
Una racket simpatico a New York.
Quando capirono che non ero lì per smerciare mi ritrovai una pistola puntata allo stomaco.
Era Flossie, ma Flossie era un uomo con la maschera.
Con un paio di movimenti lo disarmai e chiamai la polizia.
“Ottimo lavoro Kaiser” disse il sergente.
“Quando abbiamo finito lo passiamo all’FBI, vuole farci una chiacchierata circa delle scommesse clandestine e un edizione critica dell’Inferno di Dante sotto inchiesta….Portatelo via!”

Più tardi quella notte cercai una mia vecchia conoscenza di nome Gloria. Era bionda. Laureata con lode. La differenza era che si era specializzata in educazione fisica. Fu piacevole.

Breve ma utile guida alla disobbedienza civile [Woody Allen]

Per fare una rivoluzione ci vogliono due cose: qualcuno o qualcosa contro cui rivoltarsi e qualcuno che si presenti e faccia la rivoluzione. Di solito ci si veste in modo molto informale e le parti in causa sono piuttosto flessibili nello stabilire il luogo e l’ora ma, se nessuna delle due parti si fa viva, l’impresa va a finire male. Nella rivoluzione cinese del 1650 nessuna delle due parti si fece viva e perdettero l’anticipo per la sala.
Vengono chiamati “oppressori” le persone o il partito contro cui ci si rivolta e sono facilmente riconoscibili perché apparentemente sono gli unici che si divertono. Gli “oppressori” generalmente portano completi fumo di Londra, posseggono terreni e tengono la radio al massimo di notte senza che gli altri osino protestare. Il loro compito è di mantenere lo status quo, una condizione dove tutto rimane lo stesso anche se in effetti sono disposti a dare una mano di bianco ogni due anni.
Quando gli “oppressori” diventano troppo severi, abbiamo quello che si chiama uno stato di polizia, dove è vietato ogni dissenso, come il ridacchiare, il portare una cravatta a farfalla
I gruppi che si rivoltano sono chiamati “oppressi” e generalmente si assembrano brontolando e accusando emicranie (si deve osservare che non si verifica mai che gli oppressori si rivoltino o cerchino di diventare gli oppressi perché ciò comporterebbe un cambio di biancheria).
Qualche esempio di rivoluzioni famose:
La rivoluzione francese, nella quale i contadini presero il potere con la forza e subito cambiarono le serrature del palazzo per impedire ai nobili di rientrare. Poi fecero una grande festa e mangiarono a strippapelle. Quando i nobili ripresero finalmente il palazzo dovettero fare una pulizia generale e trovarono molte macchie e bruciature di sigarette.
La rivoluzione russa, che covava da anni e improvvisamente scoppiò quando la gleba finalmente capì che lo Czar e lo Tzar erano la stessa persona.
Si deve notare che, una volta compiuta la rivoluzione, gli “oppressi” spesso prendono le redini e cominciano a comportarsi come gli “oppressori”. Naturalmente da quel momento diventano irraggiungibili al telefono e per quel che riguarda gli spiccioli prestati durante la rivoluzione è meglio non chiederne la restituzione.
Forme di disobbedienza civile:
Sciopero della fame. Gli oppressi stanno senza mangiare finché non siano soddisfatte le loro richieste. Dei politici insidiosi lasceranno biscotti a portata di mano o forse del parmigiano, ma si deve resistere. Se il partito al potere riesce a far mangiare lo scioperante, di solito riesce a soffocare l’insurrezione senza troppe difficoltà. Se riesce non solo a farlo mangiare ma anche a fargli pagare il conto, ha vinto.
In Pakistan uno sciopero della fame è fallito quando il governo ha offerto eccezionali scaloppine di vitello Cordon Bleu che le masse hanno trovato troppo buone per poterle rifiutare, ma questi piatti da buongustaio sono rari.
Il problema dello sciopero della fame è che dopo qualche giorno si diventa piuttosto affamati, specialmente se circolano delle macchine con altoparlanti che trasmettono, “Ummm… che pollo delizioso! Umm… un po’ di piselli… Umm…”
Una forma modificata dello sciopero della fame, per quelli che non hanno convinzioni politiche troppo radicali, potrebbe essere la rinuncia. ai sottaceti. Questo piccolo gesto, se usato nel momento giusto, può avere un’enorme influenza sul governo.
Sciopero bianco. Dirigetevi al luogo indicato e poi sedetevi, ma col sedere per terra. Altrimenti siete solo accovacciati, una posizione che non ha nessuna presa politica, a meno che anche il governo non stia accovacciato (ciò che avviene raramente, anche se il governo a volte si rannicchia quando fa freddo). Il trucco è di rimanere seduti finché non si ottenga quanto richiesto ma, come nello sciopero della fame, il governo tenterà dei metodi subdoli per far alzare lo scioperante. Per esempio, potrebbero dire: “Okay; tutti in piedi, stiamo chiudendo.” Oppure: “Potresti alzarti un attimo che vogliamo vedere quanto sei alto?”
Manifestazione e sfilate. Condizione indispensabile di una manifestazione è che deve essere vista. E’, per questo che si chiama “manifestazione.” Se una persona manifesta privatamente, a casa, non solo non si può parlare tecnicamente di una manifestazione ma si tratta di un “atteggiamento opportunista” o un “comportarsi da idiota”.
Un buon esempio di manifestazione fu il Boston Tea Party durante il quale gli americani offesi si travestirono da pellerossa e buttarono il tè inglese nel mare. Più tardi, dei pellerossa travestiti da americani offesi buttarono in mare i veri inglesi. Quindi gli inglesi, travestiti da tè, si buttarono in mare. Finalmente dei mercenari tedeschi, vestiti solo coi costumi delle Troiane, si buttarono in mare senza ragione alcuna.
Quando si manifesta, è bene portare un cartello che dichiari la propria posizione. Alcuni suggerimenti circa ‘la posizione: riduzione delle tasse, aumento delle tasse ecc.

— Woody Allen

Io non vorrei mai appartenere a nessun club che contasse tra i suoi membri uno come me

SENZA PIUME - EFFETTI COLLATERALI - RIVINCITE - WOODY ALLEN - PREFAZIONE E CURA DI DANIELE LUTTAZZI - BOMPIANI EDITORE



Sbatti il mostro in prima pagina [lezione di giornalismo da un Belpietro di 50anni fa]

ESTRATTO DAL FILM SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA DI BELLOCCHIO
SBATTI BELLOCCHIO IN SESTA PAGINA - IL CINEMA NEI GIORNALI DELLA SINISTRA EXTRAPARLAMENTARE 1968-76 - DONZELLI EDITORE

L'importanza di non essere visti

 MONTY PYTHON L'AUTOBIOGRAFIA - MONY PYTHON - SAGOMA EDITORE
MONTY PYTHON LA STORIA GLI SPETTACOLI I FILM - FRANCESCO ALO' - LINADU EDITORE

Monty Python's The Meaning of Life


Una montagna di balle [InsuTv]

Dal 2003 al 2009 un gruppo di videomakers ha documentato la cosidetta emergenza rifiuti Campana per svelarne gli ingranaggi, individuare responsabilità e attori di quindici anni di gestione straordinaria. Uno spettacolo costato miliardi di euro e decine di processi in corso. Ma dove finiscono i rifiuti campani? Quali sono le ferite di una terra bruciata e i danni alla salute di milioni di persone? Il più grande disastro ecologico dell'Europa occidentale raccontato dalle voci delle comunità in lotta per difendere il proprio futuro: l'assalto ai fondi pubblici, le zone d'ombra della democrazia, il boicottaggio della differenziata, le collusioni con le ecomafie e le proposte di chi si interroga seriamente sulle alternative.
E se vivere in emergenza fosse solo una strategia per accumulare profitti!? 

Da un'idea di Sabina Laddaga, Maurizio Braucci e Nicola Angrisano con la voce narrante di Ascanio Celestini e con le musiche di Marco Messina 
Regia di Nicola Angrisano


UNA MONTAGNA DI BALLE

BIOPOLITICA DI UN RIFIUTO - LE RIVOLTE ANTIDISCARICA A NAPOLI E IN CAMPANIA - ANTONELLO PETRILLO - OMBRE CORTE EDITORE

LA PESTE - TOMMASO SODANO - RIZZOLI EDITORE
ECOBALLE - PAOLORABITTI - ALIBERTI EDITORE
BIUTIFUL CAUNTRI -  CALABRIA RUGGIERO D'AMBROSIO DEL GIUDICE - RIZZOLI

Una storia che come la fai a raccontare

SCEMO DI GUERRA - ASCANIO CELESTINI
RADIO CLANDESTINA - ASCANIO CELESTINI

Felice!


DOCUMENTARIO FELICE!
LA STORIA DEL GRIDAS E DI FELICE PIGNATARO

UNO SPOT DEL CARNEVALE DI NAPOLI 2012

Felice Pignataro è nato a Roma il 6 febbraio del 1940. Cresciuto a Mola di Bari (Ba), si è trasferito a Napoli nel 1958 per studiare all’Università. Dal 1967 ha portato avanti, insieme alla sua compagna Mirella, una controscuola per i bambini delle baracche, prima a Poggioreale, poi a Secondigliano. Nel 1972, si è stabilito definitivamente a Scampìa (periferia nord di Napoli) da dove ha continuato a mettere le sue enormi capacità artistiche al servizio degli “ultimi”.
Nel 1981 ha fondato l’associazione culturale GRIDAS (gruppo risveglio dal sonno) allo scopo di offrire strumenti per risvegliare le coscienze assopite. Ha realizzato oltre 200 murales in giro per l’hinterland napoletano, ma anche nel resto d’Italia. Inoltre promuoveva doposcuola, momenti ricreativi, cineforum gratuiti settimanali, e ha creato a Scampìa il carnevale di quartiere divenuto una tradizione in oltre 20 anni di attività (“il più prolifico muralista del mondo” (definizione data da E. H. Gombrich, del Warburg Institut di Londra).
É stato un punto di riferimento importante per gruppi e associazioni in lotta che lo hanno trovato sempre disponibile a supportare le proprie battaglie con la sua poliedrica arte creativa.
Dal 1994 ha applicato anche la tecnica del mosaico, realizzato con mattonelle spaccate alla maniera di Antoni Gaudì, realizzando opere in Italia e a Marxloh-Duisburg, in Germania.
Felice è morto a Napoli, il 16 marzo 2004 per un tumore polmonare, lasciando il suo “testimone” a tutti quelli che l’hanno conosciuto e sono stati “contagiati” dalla sua creatività messa al servizio del riscatto sociale.
Felice Pignataro ha dipinto murales un po' su tutti i tipi di "supporto": muri (di tutti i tipi), lamiere, striscioni, teloni, pannelli.... spesso e volentieri con le scuole, altre volte con gruppi e associazioni che chiamavano per dare voce alle loro lotte e "animare" e dare visibilità alle proprie battaglie e iniziative. 
Non si limitava alla realizzazione del murale ma prevedeva, per esempio nelle scuole: la proiezione di diapositive degli interventi già fatti per spiegare le potenzialità della pittura; la decisione, insieme ai ragazzi, dei disegni da realizzare; la realizzazione del murale insieme ai ragazzi (Felice faceva i contorni in nero e i ragazzi campivano gli interni, con i colori, infine Felice "ritoccava" i contorni eliminando le inevitabili scolature di pittura); generalmente una verifica critica finale del lavoro svolto, con i commenti dei ragazzi.
Molti di questi murales sono ormai distrutti: cancellati dalle intemperie, fatti cancellare (spesso dagli stessi "committenti" perché troppo provocatori), cancellati per lavori di ristrutturazione o per altri motivi, quelli "su pannelli" o lamiere e recinzioni di cantieri, perché asportati gli stessi supporti..A Napoli fra scuole e mura restano ancora alcuni frammenti.

1989 scuola media di Marano: una parete a soffietto che guardata da sinistra offre le immagini di come si vorrebbe che fosse la città, e guardata da destra fa vedere come invece è: l’immondizia, la burocrazia, la camorra, la mancanza d’acqua, l’oppressione dei lavoratori, contro la creatività, il recupero dell’artigianato, le giostre, l’allegria, le arti, i colori. 
 a sinistra: Felice Pignataro con il rullante richiama passanti a collaborare alla realizzazione del murales sui muri del manicomio di Aversa nel '96

a destra: 1996 “L’evasione dalla follia” per il manicomio “S. Maria Maddalena” di Aversa (Caserta).

 a sinistra: murales sulle lamiere del cantiere della metro a piazza Dante effettuato con gli studenti del convitto nel '97
a destra: 1990 Murales all’Università centrale, via Mezzocannone 16, con la Pantera, il movimento di lotta degli studenti contro la privatizzazione dell’Università, un serpente con tre teste (Craxi, Andreotti, Forlani) e all’interno l’esemplificazione dei danni della cultura distorta del capitalismo. Un vulcano che erutta fuoco e distrugge la città e il verde lussureggiante che ha il sopravvento sulla cementificazione, fiori, piante e due fidanzati 
  a sinistra: Nola, 1988. La ragnatela della camorra
a destra: 1994. Murales anti G7 ad Acerra (Napoli) “La casa è un diritto, non un regalo di chi comanda”.
a sinistra: murales contro il G7 a Napoli 1994 - Fermiamo il treno dei guai_via Cinthia Fuorigrotta
a destra: murales "Il generale, il papa, il camorrista" a Gricignano festa dell'Unità 

 a sinistra: 1991 Murales alla scuola media “G. Bruno” di Nola (Na): autodafé di Giordano Bruno, citazioni delle sue opere e illustrazioni di fogli autografi riprodotti dalle sue opere: “La libertà di pensiero è più forte della tracotanza del potere”.












Subumani poco umani [il cinema di Ciprì e Maresco]

GOFFREDO FOFI PARLA DEL CINEMA DI CIPRI' E MARESCO
[ESTRATTI DA CINICO TV]
INTERVISTA A EDOARDO SANGUINETI SUL FILM TOTO' CHE VISSE DUE VOLTE DI CIPRI' E MARESCO
TOTO' CHE VISSE DUE VOLTE

- CIPRI' E MARESCO - MORREALE EMILIANO - FALSOPIANO EDITORE
- CINICO TV DVD + LIBRO - CIPRI' E MARESCO - CINETECA BOLOGNA EDITORE



giovedì 27 dicembre 2012

La Salita [sinistra napoletana tra eresia riformismo e anticiviltà]

LA SALITA [CORTO INTEGRALE DI MARIO MARTONE CON TONI SERVILLO]


letture sparse

- PERCY ALLUM NAPOLI PUNTO E A CAPO PARTITI POLITICA CLIENTELISMO UN CONSUNTIVO
 - PERCY ALLUM IL POTERE A NAPOLI FINE DI UN LUNGO DOPOGUERRA

- ERMANNO REA MISTERO NAPOLETANO VITA E PASSIONE DI UNA COMUNISTA NEGLI ANNI DELLA GUERRA FREDDA

martedì 25 dicembre 2012

Don Chisciotte mancato [Eduardo, Carmelo Bene, Salvador Dalì]


- trascrizione dal libro "Vita di Carmelo Bene" di Carmelo Bene e Giancarlo Dotto -
1970. Anni di incontri fondamentali: Eduardo De Filippo e Salvador Dalì

Eduardo l'avevo già conosciuto. Veniva a sentirmi in cantina. Appollaiato come un corvo su uno dei tanti banchi di scuola. Ci si ritrovava poi nel terrazzo di casa di Elsa Morante a parlare di teatro letteratura musica.
Del teatro di Eduardo non si è mai capita una cosa fondamentale: il tanto celebrato “testo a monte”, vanaglorioso lasciato ai posteri, gli serviva come handicap da contraddire nella scrittura di scena. Tutte le maniche rovesciate, i passaggi incidentati, i vuoti, le amnesie, il recitar di spalle al pubblico. Una battuta poteva anche sfiatare in un'ora e mezzo. Il suo capolavoro resta la versione napoletana della Tempesta, decisamente degna dell'originale shakesperiano.






Nuje simme fatte cu la stoffa de li
suonne, e chesta vita piccerella nostra
da suonno è circondata, suonno eterno.






Non avesse scritto altro, sarebbe stato più che sufficiente a riconoscergli certa grandezza. Cestinando tutto il resto, la porcheria scritta che lui redimeva in scena, abrogandola.
Una volta venimmo convocati dall'Espresso, io Eduardo e Gassman, come i più eclatanti esempi teatrali di tre generazioni diverse. Cercarono di farci litigare ma si andava sempre più di accordo. Chiesero ad Eduardo: “Cosa si può fare per l'attore?” e lui “Complicargli la vita!”
Insieme a De Filippo progettammo di fare il film da La serata a Colono, il capolavoro della Morante, vertice della poesia italiana del novecento.
Elsa ci sollecitava a realizzarlo, ritenendoci gli unici in grado. Testimone allora anche Carlo Cecchi, che fu vicino alla Morante nei giorni estremi del coma.

Con Eduardo sempre nel 1970 parte un altro progetto commissionato dalla Rai. Un “Don Chisciotte” televisivo in dodici puntate dal cast sensazionale: Carmelo Bene autore e regista, Eduardo nella parte di Chisciotte, il clown Popov in quella di Sancho Panza e Salvador Dalì a dipingere dal vivo le visioni di Chisciotte.

Avevamo messo a punto il progetto di questo Don Chisciotte memorabile.
C'era l'ok della Rai.
Passammo ore ed ore a casa di Eduardo a discutere e a sfogliare le illustrazioni del Dorè.
La grande idea, condivisa subito da Eduardo: partire per Parigi e incontrare Salvador Dalì all'Hotel Maurice, dove gli era stabilmente assegnata una lussuosissima suite che il genio pagava con le sue tele. Si trattava di convincerlo a dipingere dal vivo le soggettive di Chisciotte con una sua squadra di allievi al seguito. Restituire in presa diretta il delirio di Cervantes, delirio su delirio.
Con Eduardo ci fu una battaglia sul ruolo di Sancho. “Prendiamo Peppino” suggerii io, grande amico mio. Eduardo acido: “No! Peppino è vecchio!”. Dovetti rassegnarmi, con il lutto nell'animo.
Eduardo propose Popov, grande clown sovietico. Da Parigi, dopo l'ok di Dalì, saremmo partiti per Mosca a chiudere il tutto.

Come andò l'incontro fra te, Eduardo e Dalì, a Parigi?

Aveva appena visto il mio “Nostra signora dei turchi” in proiezione privata. Ne era entusiasta. “Fort bien, fort bien, c'est Dalinien!”. Lo considerava il più bel film mai visto, insieme, misteri del genio, a Deserto Rosso di Antonioni.
Discutemmo ore e ore sull'arte.
“Excuse moi”, ogni tanto bussava alla porta questo Capitan Moore (servitore-segretario, ex ufficile in pensione, che Dalì aveva scritturato a patto che vestisse la divisa irlandese) con ingombranti fasci di rose rosse, accolto in ginocchio da Dalì sempre in attesa di chissà quale perduta signora.
Tra un mazzo di rose e l'altro mi disse: “il tuo film è straordinario, ma c'è ancora troppa sofferenza, sei un grande artista ma non ancora un genio. Io sono un genio”.
Dalì diffidava della Rai (e aveva ragione) ma accettò per un compenso modestissimo. Pose una sola condizione, che nella Mancia dovesse piovere sempre durate le riprese. (!)
Trionfanti prenotammo il viaggio per Mosca.
La telefonata della Rai ci ghiacciò: “Bene, lei sta correndo troppo, ma che Mosca e Mosca!”.
Il progetto sfumò. Incredibile motivazione dei dirigenti Rai: “Sarebbe stato un Don Chisciotte troppo impopolare”. Caso unico di genio manageriale.
Anche Eduardo aveva sempre diffidato della Rai, le cui telefonate impersonali (“Pronto, qui è la televisione”) troncava di netto: “Un momentino, le passo l'aspirapolvere..”.


VITA DI CARMELO BENE - DI CARMELO BENE E GIANCARLO DOTTO - BOMPIANI

1) Cinque mosse per fare più spazio al cinema documentario + 2) Dieci anni di documentario italiano tra mercato istituzioni e tecnologie


1.
Uscire dall’abbraccio dello specialismo.
Assumere che l’arte contemporanea vive, oltre che attraverso i generi più tradizionalmente frequentati (letteratura, musica, pittura, teatro, danza, architettura, cinema…), dentro forme spurie e diverse come la musica pop, la fotografia, la videoarte, il graphic novel, le serie tv, il documentario d’autore. Pur trattandosi di una situazione familiare a tutti, questa pluralità rimane spesso frammentaria, schiacciata sulla dimensione empirica e contingente.
Ragionare di più allora sulla trasversalità: farsene spaventare meno, smettere di appiattirla sulla temporalità casuale dell’intrattenimento di sottofondo; trasformarla in possibilità di confronto con linguaggi che, anche a causa di queste divisioni, faticano a oltrepassare la cerchia degli addetti, degli esperti, dei cultori. Considerare che i problemi, gli aspetti affrontati dal cinema documentario valgono non solo di per sé, ma riguardano, per esempio, anche chi arriva da altre discipline, come la letteratura.
Uscire dalla sindrome dell’incoerenza, dalla randomness. Provare a pensare che tra l’eclettismo selvaggio e lo sprofondamento autoreferenziale in uno specifico campo di interessi possa esistere una via di mezzo, capace di mettere in dialogo mondi che solo le pratiche discorsive più conformiste (autoritarismo e ribellismo fanno lo stesso gioco) tengono separati.
Provare a farlo con serietà – perché la vita è seria, come raccontano i documentari.
 2.
Il punto è che non esistono soltanto i lavori di Michael Moore. Può trattarsi – pescando campioni da un territorio molto vario – di Darwin’s nightmare (Hubert Sauper, 2004: http://www.youtube.com/watch?v=qJhHLUbdUjg ), dove si parlava di disastri ecologici provocati dall’ottusità umana; o di Whores’Glory  di Michael Glawogger (http://www.youtube.com/watch?v=HN63eTIIY38) – premio speciale della giuria nella sezione Orizzonti dell’edizione 2011 del Festival di Venezia – che racconta la prostituzione attraverso i quartieri a luci rosse di tre luoghi del mondo; o di El Sicario – Room 164 (Gianfranco Rosi, 2010: http://www.youtube.com/watch?v=Ux8rrbCn1KA), dove per ottanta minuti la telecamera imprigiona lo spettatore in una stanza di motel che rapidamente diventa una sorta di camera della tortura, via via che si ascolta un ex sicario dei narcos messicani che, con la calma fredda di un esperto professore di criminalità, ci spiega i meccanismi feroci con cui ha sequestrato, seviziato e ucciso centinaia di persone; o può trattarsi di Armand 15 ans l’été (Blaise Harrison, 2011: http://www.youtube.com/watch?v=FMxGb3DkIqM), doc sull’adolescenza, premiato come miglior documentario al Festival di Torino appena concluso; o Catching hell (Alex Gibney, 2011:http://www.youtube.com/watch?v=mY-b45iocU0), passato dal Festival di Roma,  dove si racconta l’assurdo destino dell’uomo più odiato di  Chicago: i Chicago  Cubs erano lì lì per vincere il campionato di baseball, la National League del 2003, quando dal pubblico la mano di Steve Bartman si tende e sfiorando la palla devìa la traiettoria compromettendo la vittoria; o, ancora, c’è La bocca del lupo (Pietro Marcello, 2009: http://www.youtube.com/watch?v=Je9oRJ2PyqU), ambientato a Genova, dove tra i carrugi, il porto, la Sopraelevata, la ferrovia, si svolge l’amore di due irregolari, Enzo e Mary; e poi il pugile protagonista di Corde (Marcello Sannino, 2009: http://www.youtube.com/user/marcellosannino?blend=10&ob=5#p/a/f/0/H-JpJ2Kfljw premiato a Torino e a Salina) e che si affaccia anche in Cadenza d’inganno (Leonardo Costanzo, 2011: http://www.youtube.com/watch?v=rT_z0x91YI8, passato da Nyon e dal Festival dei popoli); In Purgatorio (Giovanni Cioni, 2009: http://www.youtube.com/watch?v=I-R8EQt0Ano) che racconta il culto napoletano dei morti scavando tra le esistenze sottotraccia delle voci in campo; Iraq: war, love, God e madness (Mohamed Al-Daradji, 2010: http://www.youtube.com/watch?v=bfXv9Q2YgWo), che mostra cosa significhi realizzare un film in Iraq;  o Altra Europa (Rossella Schillaci, 2011: http://www.youtube.com/watch?v=XzMOJGB3Amw) ambientato a Torino, in un edificio di un quartiere storico operaio occupato da trecento rifugiati extracomunitari, e che racconta l’immigrazione uscendo dalle inquadrature e dalle soluzioni narrative più usate di solito per questo tema – l’emergenza, lo sbarco –, per parlarci piuttosto dei conflitti legati all’integrazione («Noi vogliamo essere come voi!» grida con rabbia una donna somala verso la fine del doc); sono vicende vicine alle storie raccontate da Simone Amendola in Alisya nel paese delle meraviglie (2010: http://www.youtube.com/watch?v=1Ge1fzPc01E) o in Ferrhotel (Mariangela Barbanente, 2011: http://www.youtube.com/watch?v=qmmi_kQ8lGk); invece Tahrir (Stefano Savona, 2011: http://www.youtube.com/watch?v=E16VQ1eJrj8) è il racconto in tempo reale della rivolta egiziana; Entrée du personnel (Manuela Fresil, 2011: http://www.youtube.com/watch?v=_rUuQnwseQ8) è l’ultimo vincitore a Marsiglia, ed è dedicato alla vita degli operai in catena di montaggio di una macelleria industriale; Marathon boy  (Gemma Atwal http://www.youtube.com/watch?v=Z2jKxThsmxQ) girato tra il 2005 e il 2010, racconta la feroce storia del bambino indiano che dai quattro anni in poi è diventato un campione di maratone; Alda, (Viera Cákanyová, 2010), passato da Visions du Réel 2010 e vincitore 2010 a Kassel, è il racconto dell’Alzheimer, dove  la trovata più  bella è l’alternanza nell’uso della macchina da presa: ora gestita dalla regista, ora dalla malata stessa che dunque, a distanza di tempo, nell’arco del doc (che dura cinquanta minuti circa), riprende magari anche oggetti che non riconosce più; Carne que recuerda (Dalia Huerta Cano, 2009: http://www.dailymotion.com/video/xb5rh3_carne-que-recuerda_creation) è un’opera ai confini tra il documentario e la videoistallazione, dove si raccontano, nell’arco di un anno, le storie di persone che hanno scelto o subito mutamenti radicali del proprio corpo; i documentari di Alina Marrazzi (Un’ora sola ti vorrei, 2002: http://www.youtube.com/watch?v=md6Wb1JXZvE) e di Giovanna Taviani (Fughe e approdi, 2010: http://www.youtube.com/watch?v=CEd8Z-NrV4I) dove l’uso del doc per scavare nella memoria privata e documentaria rielaborando una vicenda di allontanamento e di perdita diventa strategia formale attraverso il found-footage, ovvero il riuso di girato preesistente.
 3.
Cosa si intende, dunque, quando si parla di cinema documentario?
Rispondere è difficile; soprattutto è difficile fissare costanti capaci di raccogliere una produzione così ricca. Tuttavia, trattandosi di una delle forme artistiche in questo momento più interessanti e originali nel paesaggio italiano; trattandosi di produzioni che, al contrario di quanto sta accadendo all’estero, faticano ancora a uscire dalla cerchia dei festival, vale la pena di tentare di creare discorsi condivisi sul documentario. Si proverà a farlo: indicando prima cosa di solito non è il documentario di cui si parla qui; e passando poi a tre primi aspetti che mi sembrano tre risorse forti del genere doc.
 Anzitutto, il documentario d’autore – o cinema documentario, come si propone di chiamarlo – non è quello che per molto tempo si è genericamente inteso con il sostantivo “documentario” (e che per esempio il canale sky documentari continua a far credere), ovvero un filmato di argomento per lo più scientifico e geografico  usato a scopo didattico-divulgativo. Si potrebbe semmai recuperare l’espressione usata per la sezione documentari al Festival di Roma (http://www.romacinemafest.it/ecm/web/fcr/online/home/altro-cinema-extra): il documentario è cioè “Altro Cinema”: altro come modo altro di fare cinema, ma altro pure come racconto, spesso, di vite ai bordi (compreso il caso, molto ricorrente ultimamente, delle memorie dimenticate).
E neppure il doc è da intendersi semplicemente come restituzione della realtà, pur facendo grande uso dell’effetto dal vivo e dei codici di racconto dal vero – l’oralità in cima a tutti. Il linguaggio del documentario, difatti, non è un linguaggio per così dire neutro. L’autore, a titolo di intermediario, svolge, almeno nei migliori casi, la funzione di un dio tanto nascosto quanto importante, e non solo – se ne riparlerà più avanti -  perché orienta il testo secondo una precisa tensione narrativa e drammaturgica. (Da questo punto di vista, vale la pena di osservare che la grande fortuna dei reality show, che a detta di molti avrebbe avvantaggiato il genere documentario, semmai ha contribuito a sdoganare un concetto molto rozzo di cinema; detto in modo più diretto: il successo del digitale ha fatto non pochi guai, perché tante persone si sono convinte che qualsiasi materiale girato sia di per sé stesso guardabile e esteticamente fruibile; o, peggio ancora, che basta rovistare nella vita altrui per realizzare un doc).
Anche se in molti casi il documentario percorre i medesimi territori del reportage, il genere di cui si sta parlando non va inteso come l’equivalente di un’inchiesta giornalistica, o di una ricerca etnografica, perché l’intenzionalità espressiva non ha soltanto una funzione strumentale. Ed è proprio svolgendo questo punto che si entra in un campo complicato, dall’interno del quale tuttavia si possono fissare tre aspetti centrali del racconto documentario.
 Primo: il rapporto tra finzione e realtà (una questione decisiva, per esempio, anche nella narrativa contemporanea). In un certo senso, si può dire che la storia che racconta un doc prima non esisteva, come nella finzione pura; d’altra parte, nel caso del documentario non si tratta mai di una pura questione di finzione, cioè non si tratta mai di intendere il racconto come puro serbatoio dei narrabili. Così, se io leggo una storia in cui un signore svegliandosi è diventato uno scarafaggio, vado dietro all’illusio del testo – attuo quella che in narratologia è chiamata sospensione del’incredulità. L’istanza di verità non è compromessa, pur passando attraverso la metafora: è trascorso quasi un secolo, ma la storia di Gregor Samsa è uno dei racconti più visionari e più realistici mai scritti. Nel cinema doc di solito la situazione è diversa: la realtà in quanto stato di cose resta una traccia più inaggirabile, non spostabile.
 Secondo: il documentario porta in primo piano, cioè trasforma in prospettiva di discorso privilegiata, il fatto che tra la rappresentazione – parola/immagine – e la realtà c’è – resiste – l’esperienza di cui si rende conto. Il cinema diventa messa in scena fisica dell’esperienza («luce e contatto»: questo è il documentario secondo le parole di uno dei suoi grandi autori, Johan van der Keuken). Lo spettatore fa esperienza di quella vita di cui si racconta e di cui però si chiede di rispettare la distanza. La storia lascia che i suoi protagonisti restino persone, ovvero esseri sociali, senza trasformarsi o ridursi in personaggi. La soggettività d’autore, in questo senso, diventa fondativa in quanto atto di disposizione consapevole: come scelta stilistica che rende possibile non l’esistenza di quella storia, ma il suo ingresso nel mondo sociale: consente infatti che altri esseri umani pensino che quegli individui esistano.
 Terzo aspetto cruciale del cinema documentario: il contratto tra chi racconta e chi ascolta  guardando – e viceversa. L’aspetto performativo e poietico resiste e si rilancia, anche nel documentario: è costitutivo della sua genesi come della sua struttura. Rispetto alle opere di finzione, è diverso però il patto narrativo, perché gli spettatori accettano di guardare qualcosa che per statuto non è fiction, sanno che non è fiction: l’immagine si sottrae alla funzione che più le è stata attaccatta addosso dalla società mediatica, cessa di essere puro  espediente spettacolare, per recuperare, attraverso il cinema movimento, una dimensione riflessiva e sociale. Il cinema riconquista, anche attraverso il documentario, una prassi di sguardo sulla realtà intesa anche come atto civile.
 4.
Fare spazio al documentario significa partecipare di più al nostro tempo.
Per tutto quanto si è detto sin qui, infatti, una delle pratiche di racconto più significative della contemporaneità è proprio il documentario: che, annoverando tra i nomi più noti Flaherty, Dziga Vertov, Ivens, Rossellini, Antonioni, Olmi, Kubrick, Herzog, e il grande De Seta scomparso pochi giorni fa, arriva da una lunga tradizione di cinema sperimentale che solo uno sguardo puramente contenutistico potrebbe schiacciare sul Neorealismo (e farebbe torto ad entrambi).
Genere ibrido e trasversale, il documentario fa di questa trasversalità, piuttosto che l’occasione di una contaminazione alla moda, argomento di recupero del mondo esterno e delle esperienze reali che lo abitano. Oltre che per le ragioni discusse sopra, perché proprio l’uso dell’immagine documentaria fa vedere, rende nuovamente manifesto il mondo dell’esperienza anziché visualizzarlo: ci rimette in contatto con la possibilità che quelle cose che incontriamo attraverso sguardo e ascolto riluttino alle verità già pronunciate o già sapute su quegli oggetti. Le parole, le cose e le immagini, dunque.
Viviamo nell’epoca della riproducibilità tecnica della memoria: sempre di più il passato diventa, attraverso il digitale, non tanto “memoria”, “archivio”, ma “discarica” affollata di dati. La scelta autoriale dell’oggetto di cui si racconta, scavando nella memoria sociale e individuale della vita umana, aiuta a ritrovare uno sguardo attento, rovescia l’attitudine all’accumulo indifferenziato e compulsivo che in misura minore o maggiore minaccia qualunque mente connessa alla rete.
5.
Come muoversi dunque?
Guardare più documentari. Aderire alle iniziative a favore della proiezione di documentari nelle sale e negli spazi televisivi. Un veloce esempio della sconcertante gravità della situazione italiana si può avere cliccando nella sezione documentari del portale cinemaitaliano.info (http://www.cinemaitaliano.info/ricercafilm.php?tipo=anno&anno=2011&sub=doc) dove appare la lista dei doc realizzati quest’anno, quasi tutti accompagnati dall’indicazione “senza distribuzione”.
Entrare più in contatto anche con le esperienze di studio e di formazione legate al doc: per esempio la Zelig, a Bolzano (http://www.zeligfilm.it/), e la Scuola di Cinema Documentario Zavattini (http://www.scuolazavattini.it/).
 Gli strumenti maggiori per saperne di più arrivano dal lavoro in rete. Si può vedere: EDN European Documentary Network: http://www.edn.dk/edn/; il link http://www.documentaristi.it/index2.html dell’Associazione Documentaristi Italiani, riconosciuta in Italia ed all’estero come l’ente di rappresentanza ufficiale dei produttori e degli autori del documentario italiano, promuove la cultura del documentario (quest’anno è alla seconda edizione, in corso, del DOC/IT PROFESSIONAL AWARD); ITALIANDOC è un network di professionisti, società e festival interamente dedicato al documentario italiano: http://www.italiandoc.it/; http://www.ildocumentario.it/ è il portale sul cinema doc e alla sezione festival aggiorna mese per mese gli appuntamenti più importanti: http://www.ildocumentario.it/festival.htm); la sezione sui doc di http://www.sentieriselvaggi.it/260/DOCUMENTARIO.htm; http://www.cinemadocumentario.it/: un progetto che si propone di sostenere e promuovere la cultura documentaria. E ancora: http://www.onthedocks.it/: primo network internazionale di distribuzione di documentari on line; onlinefilm (http://www.onlinefilm.org) una piattaforma nata qualche anno fa in Germania per facilitare la circolazione e la distribuzione dei documentarid. Ogni giovedì alle 14 Federico Raponi conduce un’eroica trasmissione dedicata ai doc: “Visionari”, che si può ascoltare in streaming su radio onda rossa (http://www.ondarossa.info/).
Alcune indicazioni bibliografiche sul documentario scelte tra le pubblicazioni più recenti: M. Balsamo – G. Pannone, L’officina del reale. Fare un documentario: dalla progettazione al film, CDG – Centro Documentazione Giornalistica, Roma 2010; G.  Gauthier, Storia e pratiche del documentario, Lindau, Torino 2008; M. Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema, Marsilio, Venezia 2008; P. Ward, Documentary: The Margins of Reality, Wallflower, London - New York, 2005; J. Breschand, Il documentario. L’altra faccia del cinema [2002], Lindau, Torino 2005; A. Aprà, voce “Documentario”, in Enciclopedia del Cinema Treccani, vol. II, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2003; C. A. Pinelli, L’ABC del documentario, Audino Editore, Roma 2001; A. Medici, La mediazione più corta. Appunti sul video documentario italiano, in Elettroshock. 30 anni di video in Italia 1971-2001, a cura di B. Di Marino e L. Nicoli, Castelvecchi, Roma 2001; R. Nepoti, Storia del documentario, Patron, Bologna 1988; Il cinema allo specchio. Appunti per una storia del documentario, a cura di G. Bernagozzi, Quaderni di documentazione cinematografica, 5, Patron, Bologna 1985; E. Barnouw, Documentary: A History of Non-fiction film, Oxford University Press, New York, 1981.
Sono riuscita a pensare meglio agli aspetti qui discussi anche grazie a Maurizio Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Feltrinelli, Milano 2009.
 Infine, si indicano di seguito alcuni dei Festival del Documentario più importanti: il Festival dei Popoli, patria storica del documentarismo internazionale:  http://www.festivaldeipopoli.org; Torino Film Festival http://www.torinofilmfest.org; Salinadocfest: http://www.salinadocfest.it/; la sezione Orizzonti della mostra internazionale cinematografica di Venezia (http://www.labiennale.org/it/cinema/index.html); Bellaria Film Festival: http://www.bellariafilmfestival.org); IDFA-International Documentary Film Festival Amsterdam: http://www.idfa.nl; FIDMarseille: http://www.fidmarseille.org/dynamic/; Cinéma du réel – Festival international de films documentaires, Paris: http://www.cinemadureel.org/; Documenta Madrid Festival internacional dedicado en exclusiva al cine documental: http://www.documentamadrid.com/; la sezione Eurodoc del Sevilla European Film Festival (http://www.festivaldesevilla.com/); Internationales Dokumentarfilmfestival München: http://www.dokfest-muenchen.de/; la selezione dei Documentari della settimana della critica al Festival di Locarno: http://www.pardo.ch/jahia/Jahia/home/lang/it;  Das Kasseler Dokumentarfilm und Videofest: http://www.filmladen.de/dokfest/; DocsBarcelona: http://www.docsbarcelona.com/; Internationales Leipziger Festival Für Dokumentar und Animationsfilm: http://www.dok-leipzig.de/; la sezione Documentary Film Award dell’Internationales Film Festival Innsbruck: http://www.iffi.at/en/; LIDF – The London International Documentary Festival in association with the London Review of Books www.lidf.co.uk; Doclisboa International film festival: http://www.doclisboa.org/2011/en/home; Zurich Film Festival (sezione: International Documentary Film): http://www.zurichfilmfestival.org/en/home/; FIDADOC Festival International de Documentaire à Agadir: http://www.fidadoc.org/index.php; Annecy Cinéma Italien (sezione Competizione Documentari): http://www.annecycinemaitalien.com/index-ital.htm; Documentary Film Festival, Vancouver, Canada: http://doxafestival.ca/; EBS – International Documentary Film Festival di Seul: http://www.eidf.org/2011/index.php; Buenos Aires: http://www.bafici.gov.ar/home/web/es/index.html; RIDM-Rencontres Internationales du Documentaire de Montreal: http://www.ridm.qc.ca/fr.

di Daniela Brogi
dal sito Le parole e le cose - Shall we doc?

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L'apertura del decennio è drammatica: il 2001, con la rapida successione delle tragedie del G8 genovese e dell'11 settembre, scuote in profondità il sistema della comunicazione. Ma se l'attentato alle Torri gemelle in diretta tv viene immediatamente ricondotto alla sfera dell'esperienza mediata, oggetto di analisi mediologiche più che motore di un'effettiva presa di coscienza, lo smascheramento del volto autoritario delle istituzioni ad opera di una anonima moltitudine di mediattivisti è momento fondativo di un movimento di nuovi documentaristi che, sia pure con molti limiti e alcune ambiguità, non tarderà a esprimere la sua voce. A confronto con le omissioni delle reti televisive (clamorosa quella della Rai che censura addirittura Bella ciao di Marco Giusti, Roberto Torelli e Carlo Freccero, 2001, che pure ha prodotto), il popolo delle videocamerine insegue tutte le storie che gli capitano di fronte, con una molteplicità di punti di vista che è di per sé alternativa. Come scrive Marco Bertozzi, “le microstorie possono finalmente circolare, il Grande Fratello incrinarsi di fronte alla moltiplicazione degli sguardi, la storia divenire un momento pubblico” (1). ll documentario ottiene su un piano politico-civile la considerazione che, almeno in Italia, gli era sempre mancata su quello cinematografico. Il brusco risveglio da una situazione dove sembrava che si potesse attingere alla verità solo sottoponendo il falso a un processo quintessenziale si traduce in una domanda documentaria forte che, seppure parzialmente disattesa, ha prodotto e ancora produce degli effetti.

Anche per questo, più degli esiti compiuti (l'unico film di valore resta Carlo Giuliani, ragazzo di Francesca Comencini, 2002, anche se occorre segnalare almeno Le strade di Genova, 2002, umile e utilissima ricostruzione a opera di Davide Ferrario, Ilaria Fraioli, Giorgio Grosso e Jimmy Renzi) è importante la ricaduta del movimento genovese sulle prassi documentarie e sulle aspettative spettatoriali diffuse nel paese. L'idea che ci sia una realtà in movimento da raccontare si traduce in un diffuso attivismo, vitale anche se spesso scomposto. Centinaia di giovani scoprono la vocazione documentaristica e scendono nelle strade alla ricerca di una storia autentica e possibilmente appassionante. I risultati, almeno in prima battuta, non sono buoni: privo di modelli solidi e di cultura cinematografica specifica (i riferimenti condivisi sono giornalistici: Report, il settimanale Internazionale, oltre al magma del web), il “movimento” subisce la dittatura del referente e sforna lavori che anche quando escono dall'ambito militante e trattano di nuovi migranti o di vecchi operai risultano regolarmente al traino dell'agenda politico-giornalistica del paese, oltre che generalmente carenti di qualità cinematografiche.

Ma l'importante è che alcune fondamentali domande inizino a circolare: come porsi di fronte alla realtà? Come coglierla nel suo farsi? Come raccontare il cambiamento? Partecipare o testimoniare? Si tratta evidentemente di questioni a suo tempo affrontate dai teorici del cinema diretto ma che nel contesto italiano, carente di riferimenti culturali e penalizzato da sponde istituzionali – università, editoria, critica – deboli e disorganizzate, avevano scarso corso. Negli anni successivi, quelli presi in considerazione da questo volume, all'interno del grande movimento di aggiornamento e divulgazione che si è sviluppato un ruolo di primaria importanza ha proprio la riscoperta delle forme e delle riflessioni sul cinema diretto. Ignorato all'epoca del suo fulgore storico e snobbato poi a favore di forme più “moderne” e ibride (di volta in volta cinema militante, docufiction, videoteppismo, nonfiction, infine documentario di creazione), il diretto recupera posizioni soprattutto grazie alla mediazione di documentaristi didatti come Leonardo Di Costanzo, Daniele Incalcaterra e Alessandro Rossetto, che introducono anche da noi i modelli e le pratiche della scuola documentaristica francese la quale, neppure negli anni del documentario di creazione trionfante, ha mai reciso i legami con il diretto. (2)

A partire da tali sintetiche premesse, questo testo traccerà alcune delle linee di sviluppo – istituzionali, organizzative, tecnologiche e di riflesso estetiche – che hanno caratterizzato l'ultimo decennio, cercando di individuare le tendenze di maggior respiro, anche in relazione al quadro internazionale, e infine ragionando su alcuni dei lavori più significativi degli ultimi anni.

Il mercato, o quello che ne resta

Il decennio 2000 segna il ritiro quasi generalizzato delle televisioni dalla produzione documentaria. Nel 2002 Murdoch compra Tele+ e interrompe immediatamente la politica di preacquisti che la rete aveva perseguito con coerenza dal 1997. Al documentario italiano viene a mancare quella sponda “industriale”, caratterizzata dall'indispensabile continuità e da un progetto editoriale preciso (in sintesi, l'importazione del documentario di creazione alla francese, sul modello Arte), che gli aveva permesso di fare un piccolo salto in avanti e di conquistare, anche tramite coproduzioni e accordi, una timida visibilità internazionale (3). Da una parte autori importanti come Gianfranco Pannone, autore di Latina/Littoria (2001), Alessandro Rossetto, Chiusura (2001) e Leonardo Di Costanzo, Prove di Stato (1999), si trovano improvvisamente privati della sponda nazionale, indispensabile per costruire coproduzioni internazionali di un certo livello, dall'altra si interrompe quella politica di promozione del nuovo che negli anni precedenti aveva portato ad esordire filmmaker come Alina Marazzi, Stefano Savona, Paolo Pisanelli e i Fluid Video Crew.

Gli anni successivi sono segnati da incertezze e contraddizioni, dove la costante è il relativo disinteresse della Rai, il cui impegno nel documentario si limita oggi alla trasmissione Doc3 (ventotto documentari “di interesse sociale” mandati in onda nel biennio 2010/2011, pochi dei quali sostenuti anche produttivamente) e l'unica vera novità è l'impegno delle istituzioni pubbliche locali e centrali nel documentario.

Capofila dei fondi locali istituiti negli ultimi anni (4), quello che ha il progetto più organico ed esteso – per quanto legato al territorio di riferimento (5) – è il Piemonte Doc Film Fund istituito nel 2007 per sviluppare e razionalizzare gli interventi che la Regione Piemonte e la Film Commission svolgevano singolarmente da alcuni anni. Con il finanziamento di 128 film per un ammontare oscillante da 5.000 a 43.000 euro nel triennio 2007-2009 (6) e il completamento di 56 film (mentre ce ne sono altri 53 in progress) nel biennio successivo, il fondo  è l'articolazione documentaristica di quel “sistema Torino” che appare tuttora come l'unico polo produttivo moderno ed europeo realizzato negli ultimi anni.

Il governo centrale risponde alle richieste dei documentaristi rappresentati dall'Associazione doc/it e con la nuova Legge Cinema (D. Lgs 22 gennaio 2004 n. 28 e successive modif.) inserisce i documentari nel novero dei film finanziabili. Dal 2005 in poi il Mibac sostiene una quarantina di lavori all'interno delle categorie dei Cortometraggi (40.000 euro ciascuno) e dei Lungometraggi (dai 200.000 euro di Fughe e approdi di Giovanna Taviani ai 640.000 euro di Civico zero di Citto Maselli). Importante dal punto di vista del principio – i documentari sono a tutti gli effetti dei film e come tali sostenuti – il finanziamento ministeriale ha un volume complessivo insufficiente a garantire una continuità produttiva all'industria del documentario ma non si può negare che senza di esso alcuni film importanti come La strada di Levi di Davide Ferrario (2006), Face Addict del ticinese Edo Bertoglio (2005), Il colore del vento di Bruno Bigoni (2011) e Il sol dell'avvenire di Gianfranco Pannone (2008) non avrebbero altrimenti visto la luce, mentre è evidentemente complementare ad altre più sostanziose provviste il contributo consegnato a Odessa di Leonardo Di Costanzo e Bruno Oliviero (2006), Giallo a Milano di Sergio Basso (2009), Per questi stretti morire di Sandri-Gaudino (2010), Gaza Hospital di Marco Pasquini (2009). L'intervento ministeriale, che prevede espressamente che una parte del finanziamento sia destinato alla distribuzione, il timido impegno dei documentari della divisione cinematografica della Rai (tra i film sostenuti, Odessa, I promessi sposi, Grandi speranze e Il castello di Martina Parenti e Massimo D'Anolfi, nessuno dei quali però distribuito regolarmente in sala) e il successo di documentari come Bowling for Columbine (2002) e Fahrenheit 9/11 (2004) di Michael Moore e Essere e avere di Nicolas Philibert (2002) hanno alimentato per alcuni anni l’illusione, corteggiata per un po' addirittura dall'Associazione doc/it, che la sala cinematografica potesse costituire un'alternativa economica alla sempre più distratta televisione. Gli incassi raccolti dai tentativi più convinti (Biutiful cauntri di Esmeralda Calabria, Andrea D'Ambrosio e Peppe Ruggiero e Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi, distribuiti rispettivamente da Lumière e Mikado nello stesso 7 marzo 2007, La strada di Levi di Davide Ferrario, Un silenzio particolare di Stefano Rulli, 2004) hanno però scoraggiato anche i più fiduciosi, tanto più che negli ultimi anni la riconversione digitale delle sale ha innescato un processo di ristrutturazione e di ulteriore concentrazione dell'esercizio destinato a ridurre gli spazi disponibili per i film indipendenti.

Supplenze e omissioni

A fronte del fallimento del mercato (cinematografico e televisivo) e delle incomplete contromisure istituzionali, accade però che il movimento documentaristico italiano non abbia smesso di svilupparsi e di esprimere individualità di rilievo tra gli autori e i curatori (7), di raccogliere prestigiosi premi internazionali ai festival (8) e di essere oggetto di interesse delle riviste internazionali (9).
La contraddizione, evidente e non si sa fino a quando sostenibile, ha il suo fondamento nello sviluppo di una rete informale di festival, scuole, associazioni, fondi locali, premi, editoria specializzata e siti web che, operando al di fuori delle compatibilità del mercato, hanno svolto un’opera di supplenza e garantito la tenuta del sistema. In particolare sono i festival che mantengono il collegamento tra i registi e un pubblico costantemente in crescita e assolvono quell'importante funzione di indirizzo che normalmente spetterebbe alla critica. L'aggiornamento e l'apertura internazionale di manifestazioni storiche come il Festival dei Popoli di Firenze e Filmmaker, la conversione al documentario di una manifestazione radicata come Bellaria Anteprima, la troppo breve vita di Infinity ad Alba, lo spazio sempre più ampio riservato al documentario dai festival generalisti hanno contribuito a diffondere e a sprovincializzare la cultura documentaristica diffusa tra gli operatori e il pubblico, e le retrospettive dedicate a Nicolas Philibert ad Alba, a Chris Petit e ai nuovi filippini a Pesaro, a Johan van der Keuken, Frederick Wiseman, Errol Morris a Filmmaker, a D.A. Pennebaker e Peter Whitehead a Bellaria hanno seminato vocazioni a vedere e a filmare di cui si è giovato l'intero movimento.

Più articolato il ragionamento sull'editoria. Insieme alle monografie realizzate in corrispondenza delle retrospettive festivaliere, il decennio ha segnato un certo ritorno d'interesse per il documentario degli editori specializzati, che hanno tradotto testi fondamentali come quelli di Bill Nichols e Guy Gauthier (10), hanno dato alle stampe l'indispensabile Storia del documentario italiano di Marco Bertozzi senza scordare la voce “Documentario” curata da Adriano Aprà per l'Enciclopedia Treccani.

Sono però altri i testi cardine: il primo è L'idea documentaria curato dallo stesso Bertozzi con la collaborazione di Gianfranco Pannone (11), collezione ricchissima e un po' magmatica di testimonianze, ragionamenti e ricognizioni storico-teoriche che, uscita nel 2003, si trasforma rapidamente in un riferimento capillarmente diffuso in tutta la comunità dei documentaristi. Fondamentale strumento di aggiornamento al momento della sua uscita, a distanza di quasi dieci anni il volume appare come una sorta di autocoscienza collettiva di un movimento che prendeva per la prima volta coerentemente la parola. Interessante tanto per le domande che solleva quanto per le risposte che cerca, sintomatica espressione di grandi individualità e di alcuni limiti teorici e culturali, il volume è pronto per essere storicizzato e messo a confronto con le corrispondenti realizzazioni del periodo.

Del tutto proiettato in avanti è l'altro libro fondamentale del decennio, Vedere e potere di Jean-Louis Comolli, impegnativo nei riferimenti (molti dei quali sconosciuti in Italia) ed espressione di una riflessione teorica ambiziosa che affronta tutto il cinema alla luce della pratica documentaria. La teoria di Comolli – che è studioso e cineasta – si radica nella minuta pratica filmica e da essa è nutrita in un cortocircuito fecondo che offre risposte nello stesso momento in cui rilancia le domande. Il suo ragionamento sull'autorappresentazione della realtà davanti alla macchina da presa, figlio delle riflessioni storiche del cinema diretto, è posto con una tale efficacia, unitaria nel fondamento dottrinale e allo stesso tempo plastica ed adattabile alle diverse contingenze pratiche della messinscena, da offrire strumenti solidi sia a chi viene dallo studio del cinema e dalla cinefilia che ai cultori della pratica. Attraverso Comolli, che tenne anche un interessante seminario a Bellaria nel 2007, si riduce almeno in parte il gap culturale che separa l'Italia dagli altri paesi e comincia a diffondersi l'idea che il documentario possa essere oggetto di analisi filmiche raffinate segnando la via di un possibile incontro con la critica, finora ampiamente mancato.

Vedere sempre di più: l'alta definizione di massa

Relativamente indipendente dal mercato del documentario (ma piena espressione del mercato dell'elettronica di consumo), la variabile tecnologica ha un rilievo notevole ma sempre mediato sulle pratiche e ancor più sulle estetiche del documentario. Il vincolo di budget che affligge praticamente tutte le produzioni limita l'adozione di strumentazioni troppo costose e la necessità di leggerezza e praticità d'uso indirizza i realizzatori verso macchine da presa piccole e portatili. D'altra parte le comunicazioni via internet tagliano drasticamente i tempi di diffusione delle novità che ultimamente incalzano comunità virtuali di utenti sempre più informati e tecnicamente agguerriti. Gli anni che vanno dal 2001 al 2010 segnano l'allargamento dell'uso del digitale e soprattutto la definitiva affermazione dell'alta definizione a basso costo. Nel 2003 viene raggiunto un accordo sul formato HDV che consente la realizzazione di camere HD da 2000 euro, l'anno successivo esce il sistema di registrazione P2, a tutt'oggi il più affidabile e professionale, rapidamente affermatosi come standard di riferimento nel documentario, e nel 2006 viene lanciato il codec AVCHD, più efficiente nella compressione, adatto ai supporti a scheda e ben supportato dai nuovi e potenti processori dei computer da montaggio. Infine, tra il 2008 e il 2009, l'uscita sul mercato di due fotocamere Canon di prezzo contenuto e dalle spiccate qualità video (HD con codec H264, ma soprattutto ottiche intercambiabili e un sensore di ripresa di dimensioni pari a quelle del fotogramma 35mm che consente sfuocati e profondità di campo dal sapore marcatamente cinematografico) cambia le prospettive tecnico-realizzative di molti filmmaker indipendenti e con loro dei documentaristi meno conservatori. Da Monte Hellman (Road to Nowhere, 2010, in concorso a Venezia) a Stefano Savona (Tahrir Liberation Square, 2011, proiettato in uno spettacolare 2K al festival di Locarno) l'uso di macchine fotografiche usate come videocamere si diffonde rapidamente e altrettanto rapidamente, suggerite da innumerevoli clip disseminate su YouTube da tecnici puntigliosi ed entusiasti evangelisti del nuovo verbo, si affermano consuetudini di ripresa e soluzioni tecniche a misura delle piccole Canon. Oggi la focheggiatura selettiva è diventata un must di qualsiasi saggio di scuola e la straordinaria pulizia delle ombre in condizioni di scarsa luminosità spinge i filmmaker a orientare la macchina da presa verso soggetti fino a poco tempo prima letteralmente invisibili. Se la dialettica tra qualità del mezzo e progetto creativo del regista resta tutto sommato all'interno del fisiologico processo di aggiustamento reciproco tra tecnica ed espressione che il cinema conosce fin dalle origini, a colpire sono la velocità del fenomeno e le dimensioni che esso ha raggiunto. Oggi che l'alzata d'ingegno di un innovatore si può trasformare in consuetudine in un giro di web, è sempre più vero che la quantità fa la qualità.

Ma l'aspetto ancora più interessante del passaggio lo si coglie nell'interazione di queste tecnologia di ripresa con le proiezioni digitali in 2K diffuse ormai nelle principali sale cinematografiche del Paese – dove però i documentari non vengono proiettati quasi mai – e nei festival principali, specializzati o generalisti, dove invece i documentari si sono ritagliati da tempo uno spazio cospicuo. I proiettori ad alta definizione esaltano il “microcontrasto” delle immagini digitali che, al di là dei valori effettivi di definizione, inferiori anche nei casi migliori a quelli della pellicola 35mm, appaiono più incise e ferme, quasi scolpite sullo schermo. L'effetto è una sorta di potenziamento della visione, di un iperrealismo che evidenzia i dettagli e svela le imperfezioni (della pelle e del make-up: si pensi soltanto a J. Edgar di Eastwood). Che da una parte aumenta il numero di informazioni potenzialmente disponibili e dall'altra introduce una certa ineliminabile quota di artificio nella rappresentazione. La progettazione dei sensori e del software di controllo di queste camere sembra ispirata a modelli altri rispetto a quelli che hanno sempre governato la riproduzione della pellicola. Se prima per riconoscere all'impronta una pellicola da un'altra non sempre bastava l'occhio di un esperto direttore della fotografia, oggi quasi chiunque può individuare il tipico look della Canon 5D, un mix inconfondibile di iperdefinizione percepita, peculiare gamma cromatica e ridotta profondità di campo. È come se il digitale, colmato lo scarto qualitativo che lo separava dalla pellicola, avesse preso una strada propria lungo la quale i parametri tecnici della mimesi cinematografica, codificati e continuamente modificati per tutto il secolo chimico, sembrano essere ignorati. O meglio, sono pronti ad essere tranquillamente relativizzati come già accade nel campo della fotografia, dove il software Hipstamatic, applicando dei preset digitali, trasforma una qualsiasi foto dell’iPhone in un'immagine dal sapore vintage ispirata alle caratteristiche di celebri pellicole del passato.

Il passaggio è notevole, particolarmente visibile nel documentario che sul realismo di base del dispositivo cinematografico costruisce il suo patto con lo spettatore, ma in realtà esteso a tutta la rappresentazione cinematografica, che come dice Pietro Montani è chiamata in questa fase storica a “rinegoziare i rapporti tra l'elemento finzionale e quello testimoniale” (12). Montani si riferisce principalmente alle immagini di film come Il signore degli anelli dove la matrice fotografica è sottoposta a rielaborazioni e vere e proprie “creazioni”, ma il discorso vale allo stesso modo qui, dove l'intervento di progettazione informatica è più limitato e sottile ma il suo uso più diffuso, generalizzato e nascosto. L'indicazione di Montani a favore di un cinema che riscopra l'elemento testimoniale attraverso “un ripensamento della tecnica in direzione di una dimensione etica che mi piacerebbe contrapporre a quella poietica tipica dell'estetica moderna” suggerisce la necessità di indagare i modi (e i modelli che gli informatici hanno in mente quando progettano il software di una videocamera) attraverso cui “i dispositivi tecnici sono in grado di raccogliere e mettere in forma la contingenza del mondo esterno”. Se è vero che “ciò che conta davvero è la capacità del cinema, sia di finzione che non, di accogliere l'imprevedibile e di portarlo dentro la propria struttura formale, conservandone i tratti di imprevedibilità” (13) non si può ignorare come questa operazione avvenga, attraverso quali filtri e quali trasformazioni, esplicite o implicite, ottiche o digitali che siano.

Cosa accade là fuori: il controllo e altre ossessioni in tre film esemplari

Quello che fa Nikolaus Geyrhalter in Abendland (Austria, 2011), riedizione high tech e politicamente corretta dei vecchi Mondo movies, è portare sullo schermo la “fortezza Europa” delle frontiere e di quei dispositivi di controllo, capillari e impersonali occhi meccanici nella notte, che vegliano silenziosi sulla nostra sicurezza. Nell’esemplare sequenza girata a Melilla, lungo il confine tra la Spagna e il Marocco, la macchina da presa osserva impassibile il funzionamento di videocamere di sorveglianza che operano in assenza o quasi di presenza umana. Macchine che guardano altre macchine, un dispositivo filmico che si presenta allo spettatore come il raddoppiamento del dispositivo di controllo, dove la cattura della realtà equivale all'individuazione del clandestino che cerca di entrare. Il cineasta si sottomette alla messa in scena del controllo e la filma “come se fosse la relazione cinematografica stessa”. Jean-Louis Comolli osservava qualcosa di molto simile a proposito di filmare il lavoro (14) quando sottolineava come il cinema fosse (e contnui a essere) “in primo luogo una macchina che eredita altre macchine, ossessionato e come affascinato da esse. Dialogo di macchine. Attrazione e seduzione che comportano un'accentuazione delle dimensioni plastiche e coreografiche nelle rappresentazioni del lavoro. Adorazione della superficie e del movimento come quintessenza dello spettacolo.” Con l'avvento dell'alta definizione il cinema documentario subisce evidentemente il fascino dei sistemi di sorveglianza, con cui condivide la tecnologia digitale e le qualità analitiche. Se adeguatamente messa in forma, la semi-immobilità del controllo può trasformarsi in uno spettacolo, terribile e affascinante, pronto a restituire nella sua vitrea plasticità un'esperienza cinematografica potente e stordente, perfettamente integrata all'attuale panorama audiovisivo.

I film-mondo, collezione spesso disinvolta di fatti diversi unificati dalla pretesa di esaurire un luogo, un tema, un universo, sono un campo privilegiato di questa tendenza. L'impassibilità e l'esibita oggettività dello sguardo trasformano in “naturale” ciò che in effetti è “culturale” (economico e tecnologico, a volte organizzativo e sempre storico) e la retorica argomentativa – spesso orientata a posizioni “apocalittiche” – si consolida in un'ideologia che non offre alternative al mondo come viene rappresentato. Nelle intenzioni di alcuni commissioning editors (Abendland è prodotto da ORF, ZDF e 3sat) è questo il cinema di nonfiction che può ritrovare le platee (televisive, ma in certi paesi europei anche cinematografiche) di un decennio fa ed è per questo che il filone vive oggi un certo rigoglio non solo festivaliero.

Ma non tutti i film-mondo sono uguali e non è difficile individuare alternative al modello egemone anche tra i film che assumono il set standard di regole del gioco (argomenti d'attualità, ampiezza della narrazione, alta qualità fotografica) (15). Il russo Viktor Kossakovsky, per esempio, con ¡Vivan las Antípodas! (2011) realizza un film-mondo che, pur condividendo l’alta definizione e i caratteri esteriori del filone cui appartiene, si fa beffe delle pretese universalistiche che lo contraddistinguono, individuando un principio d'ordine stravagante per quanto in sé rigorosissimo: il film racconta le relazioni che intercorrono tra una serie di coppie di luoghi collocati l'uno agli antipodi dell'altro, individuando somiglianze e affinità che appartengono all'universo della figurazione, dell'arte, dell'associazione mentale e che non vengono mai – tranne che nelle sue interviste happening – assunte come scientifiche e “naturali”. In Alpi (2011) l'artista e filmmaker italo-tedesco Armin Linke affronta molti dei luoghi fisici e simbolici di Abendland, ma la sua capacità di smascherare la monumentalità del potere passa attraverso una serie di procedimenti – l'ironia, l'incorniciamento, il “passo indietro” metaforico ma a volte anche reale – che lasciano allo spettatore lo spazio dell'interrogativo. Il suo sguardo, sempre riconoscibile nella composizione del quadro e nella durata della singola ripresa  (realizzate in pellicola super16), è schiettamente cinematografico, con una precisa consapevolezza del fuori campo e una moralità indiscutibile.

Il confronto più interessante viene però dall'esame del documentario italiano più premiato dell'ultima stagione, Il castello di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti (2011), girato anch'esso in HD. Nel primo episodio del film lo spettatore si trova coinvolto in una triangolazione di sguardi simile a quella proposta da Geyrhalter: l'osservazione del lavoro delle guardie di frontiera dell'aeroporto di Malpensa, dopo l'esposizione di una serie di protocolli standard (la simulazione dell'attentato, la verifica della freschezza delle derrate alimentari, le perquisizioni), approda all'individuazione – sugli schermi delle radiografie e poi negli interrogatori – di un corriere internazionale della droga. Se i nessi di causalità suggeriti dal montaggio tendono a giustificare la necessità del controllo, a differenziare il senso del lavoro di D'Anolfi e Parenti da quello di Geyrhalter è la qualità dello sguardo posato sugli uomini. L'impersonalità delle procedure – che, pur assistite dagli occhi meccanici, non prescindono mai dall'intervento umano – viene contrapposta all'irriducibile individualità del caso singolo e l'intera messa in forma è sostenuta dalla polarità tra sfondo geometrico e primo piano irregolare e vivo del personaggio. Ed è a quest'ultimo che la macchina da presa offre tutta la sua attenzione. Consapevoli che “la messa in scena è un fatto condiviso, una relazione” (16), i due cineasti accolgono – e regolano – l'autorappresentazione che l'uomo con l'intestino pieno di ovuli di cocaina organizza a beneficio degli agenti di frontiera, accettano di essere chiamati dallo stesso a garanti della correttezza delle procedure e si assumono i rischi che un simile coinvolgimento comporta. La scommessa è vinta. Pienamente inseriti nella tradizione del cinema diretto (il loro primo film, I promessi sposi, 2007, era una sorta di applicazione del dispositivo wisemaniano di Welfare (1975) e High School (1968) alla realtà dell’amministrazione pubblica italiana) e abituati a valutare lo spessore e la qualità drammaturgica delle autorappresentazioni che si offrono alla macchina, D'Anolfi e Parenti attribuiscono il giusto peso alla tecnologia e alla sua messa in scena senza farsi risucchiare dal suo fascino. Usano l'HD per entrare in sintonia con l'ossessione del controllo che domina l'universo dell'aeroporto ma poi, mostrando chi sta davanti e dietro alle videocamere di sorveglianza, mostrano l'umanissima, ambigua, vitalmente compromessa natura della loro attività.

Nelle prassi filmiche la rinegoziazione del rapporto tra testimoniale e finzionale di cui parla Montani è questione di istinto e di lavoro, di contingenze fortunate e di riflessioni a lungo termine. Pensare o essere pensati dalla macchina, progettare o subire il dispositivo con cui si intende affrontare e trasformare la realtà non si presenta mai come un'alternativa netta e facilmente riconoscibile. Come ho cercato di mostrare in queste note è compito della teoria ma soprattutto del serrato confronto con i film individuare i modi e i tempi di questo relazione. Si tratta del campo specifico della critica che però in Italia, con pochissime eccezioni (17), ignora tranquillamente il documentario. Ma questa è davvero un’altra storia.

NOTE

(1) Marco Bertozzi, Storia del documentario italiano, Venezia, Marsilio, 2008, p. 290.
(2) Si veda a titolo d'esempio lo speciale “Le cinéma direct, et après?”, in Images documentaires n. 21 Parigi 1995.
(3) Fabrizio Grosoli, "Doc in tv. L'esperienza di Tele+", in Marco Bertozzi (a cura di), L'idea documentaria, Torino Lindau, 2003, p. 345.
(4) L'ultimo in ordine di tempo è quello della Film Commission Valle d'Aosta, mentre nel 2008 ha avuto un'importanza notevole l'episodio isolato del Fondo cinema della Provincia di Milano.
(5) Tra i cinquantadue film completati nel triennio 2007-2009, 15 sono prodotti da società non piemontesi, ma di questi solo due sono privi di connessioni forti con il territorio o sono diretti da registi non piemontesi. Cfr. Relazione 2010. Elenchi, tabelle e foto in www.fctp.it/info_pdff.php?&lang=_it.
(6) Cfr. Marco Bertozzi, "A rapporto! Uno sguardo sul Piemonte Doc Film Fund" in www.fctp.it/info_pdff.php?&lang=_it, Torino 2010.
(7) Si pensi a Luciano Barisone, direttore dal 2011 di Visions du Réel di Nyon, uno dei più importanti festival europei di documentari.
(8) Gli ultimi e più importanti sono il premio raccolto agli Hot Docs di Toronto da Il castello di D'Anolfi e Parenti e quello riportato a Cinéma du Réel di Parigi da Palazzo delle Aquile di Stefano Savona.
(9) Cfr. Emiliano Morreale, "Nouvelles images du cinéma italien", in Cahiers du Cinéma n. 662, dicembre 2010.
(10) Bill Nichols, Introduzione al documentario, Milano Il Castoro, 2006; Guy Gauthier, Storie e pratiche del documentario, Torino Lindau, 2009.
(11) Marco Bertozzi con la collaborazione di Gianfranco Pannone (a cura di), L'idea documentaria, Torino, Lindau 2003.
(12) Mazzino Montinari (a cura di), "Il cinema al bivio. Intervista a Pietro Montani", in Close-up n. 16, sett. 2004.
(13) Id.
(14) Jean-Louis Comolli, "Corps mécaniques de plus en plus célestes", in Images documentaires n. 24 1996; trad. it. in Filmmaker 10, Milano 1999.
(15) Al di fuori delle quali è da segnalare il lavoro di Anna Franceschini, che nel piano sequenza di 14 minuti che compone Nothing is [Is] More Mysterious. A Fact That Is Well Explained (2010) mette in scena il confronto tra due macchine del millennio scorso, una pianola meccanica conservata in un museo di Amsterdam e un'Arriflex 16mm muta.
(16) Comolli, op. cit.
(17) Il Manifesto e occasionalmente L'Unità tra i quotidiani, Duel e Close-up tra le riviste.


di LUCA MOSSO dal sito Filmidee.it
Testo originariamente pubblicato all'interno di Il reale allo specchio. Il documentario italiano contemporaneo, a cura di Giovanni Spagnoletti, Marsilio 2012.


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