mercoledì 9 gennaio 2013

Annibale Ruccello




Cyberpunk: è tempo di morire [Blade runner]




in Morte di un matematico napoletano



“Morte di un matematico napoletano” di Mario Martone.
Indica già nel titolo la definitiva inversione temporale indotta dal cinema, lo sdoppiamento inevitabile anche dentro la semplicità, la frattalità di ogni linearità: "morte di..", invece che "vita di..", non biografia, un matematico, un napoletano, un sospetto accostamento surrealista supportato invece dalla storia.
Morte di un matematico napoletano segna la completa estraneità di un personaggio (Carlo Cecchi in Renato Caccioppoli) rispetto ai suoi forti apparentamenti (famiglia, città, università), magnificamente visti dal film. La prima parentela è quella col set, anzi diventa set: Napoli. La prima scena è un tentativo di fuga geografica e alcolica placidamente interrotta da una richiesta di documenti. E la fortissima parentela col set di Napoli e l'esemplarità politica di una biografia ribadita dallo straordinario lungo ricominciamento rosselliniano dopo il sucidio (la scena del funerale), sono nulla, se non si riesce neanche a torcere la propria mano finchè si riafferri da sola, a mettere a contatto in  un istante la parola e la cosa, la formula e il peso, l'immagine e il fuoricampo, due occhi filmati e quel loro controcampo assoluto.
Il film si pone oltre, dalla parte della lesione interna, nascondendo fino alla fine la mossa più radicale, ma costringendoci fin dall'inizio con un opera già 'postuma' (morte di..) ad avanzare in un territorio di spettri, di morti non-morti, identificazione precisa sia del cinema sia di napoli.
Composizione e decomposizione di un corpo che fu.
[Enrico Ghezzi]

Ultimi giorni nella vita di Renato Caccioppoli (Capodimonte, Napoli1904- Chiaia, Napoli1959), figlio di Giuseppe (noto chirurgo napoletano) e della sua seconda moglie Sofia Bakunin, (figlia del rivoluzionario russo Michail Bakunin, che soggiornò più volte a Napoli nella sua attività politica),
matematico insigne, provocatore antifascista, eretico compagno di strada del PCI, protagonista della vita culturale di Napoli, dandy alcolista, raffinato pianista e cinefilo, un mito per i giovani, abbandonato dalla moglie e allontanatosi dai compagni e dai colleghi di ateneo, finì suicida.
Martone, senza retorica, racconta Caccioppoli (un Carlo Cecchi di straziante intensità) senza dirci della sua vita (non è un film biografico ne leggendario, non sarebbe possibile), nella disillusione e nel tormento di una Napoli ingiallita e quasi crepuscolare che lo riflette come uno specchio in frantumi, senza portare lo spettatore a collegare il suicidio a questo o a quest'altro motivo (il tradimento della moglie, l'alcol, la delusione politica), come quei giornalisti e scrittori che invece così facendo hanno ridotto l'esistenza a parzialità.
DOCENTE ALLA FEDERICO II
Giovanissimo ottenne un premio ministeriale per la matematica e nel 1931, vincendo il concorso a soli 27 anni la cattedra di Analisi algebrica all'Università di Padova. Nel1934 tornò a Napoli per coprire la cattedra di Teoria dei gruppi; successivamente passò alla cattedra di Analisi Superiore e dal 1943 a quella di Analisi Matematica.
In pochi anni diventa socio ordinario delle più importanti Accademie della matematica e delle scienze.
Non ebbe mai dei grossi riconoscimenti internazionali, sia per la sua trascuratezza nei dettagli dei suoi scritti, sia a causa dell'isolamento in cui il regime fascista aveva gettato la cultura italiana.
Oggi Renato Caccioppoli è considerato uno dei più creativi e importanti matematici italiani della prima metà del Novecento, con il suo “pensare in grande” e il suo non voler celare gli orizzonti infiniti della ricerca.
Renato Caccioppoli non era probabilmente il professore che uno studente sogna di avere ad ogni esame: a volte teneva le lezioni in napoletano, (era poliglotta, famose anche le sue battute in francese), altre volte era visibilmente ubriaco e disattento.
Teneva lezioni brevissime, arrivando sempre in ritardo e lasciando l’aula spesso in anticipo: giustificava la cosa spiegando che un quarto d’ora delle ‘sue’ lezioni contenevano più scienza e informazione di due ore di lezione normale. E forse era vero: gli studenti erano affascinatissimi dal suo carisma, anche se molti chiedevano di cambiare cattedra per sostenere dopo i corsi l'esame con l'altro docente di ruolo. Superare un esame con Caccioppoli era motivo di grande orgoglio, ma solo pochi ardimentosi osavano cimentarsi.
Caccioppoli era intollerante nei confronti dei piccoli trucchi degli studenti, delle mezzecalzette raccomandate della borghesia, dei superficiali e dei pressappochisti che lo rendevano severo, a volte intrattabile e velenoso sopratutto in sede di esame. A lezione no. Era più disponibile e gentile.
L'assistente era Don Savino, e neanche lui sfuggiva alle pungenti battute del professore. Un “prete”, assistente d'‘o prufessore cumunista, faceva parte del mito, del “paradosso” Caccioppoli e alimentava la “leggenda metropolitana” di questa figura così stravagante.
Alla Federico II girano ancora oggi molte storie sulla sua personalità..come la volta che bocciò uno studente reo di non aver disegnato il tratteggio agli estremi di una retta; il professore obbligò il ragazzo a continuare la linea di gesso fino alla fine del corridoio...

IL PERIODO FASCISTA FRA I PAZZI 'CIVILI'
Caccioppoli provava una forte avversione per un regime antidemocratico come quello fascista e sentiva un profondo fastidio verso la sua grossolanità.
Già tenuto sotto controllo, a Padova, da parte dell’occhiuta polizia politica fascista, è a Napoli che l’antifascismo di Caccioppoli viene allo scoperto con l’arma che sente più propria e più sottile: l’ironia. Così, il matematico comincia a guadagnare notorietà negli ambienti antifascisti. Partecipa alle riunioni clandestine degli oppositori del regime che si svolgono fra un bar e l'altro, in casa di qualche amico o compagno, nel magazzino di una libreria.
Nel maggio del 1938 tenne un discorso contro Hitler e Mussolini, quando quest'ultimo era in visita a Napoli: insieme alla compagna, Sara Mancuso, fece suonare l'inno nazionale francese da un'orchestrina, dopodiché iniziò a parlare contro il Fascismo e il nazismo in presenza di agenti dell'OVRA. Fu arrestato con il rischio di confino, ma sua zia, Maria Bakunin, all'epoca docente di Chimica all'Università di Napoli, riuscì a farlo scarcerare convincendo le autorità dell'incapacità di intendere e di volere del nipote.
Caccioppoli fu così internato in un centro psichiatrico insieme a pazzi e malati ricoverati e dimenticati da anni, ma continuò anche lì gli studi di Matematica, elaborando proprio allora alcune delle sue migliori teorie. Dirà successivamente che in quel periodo del fascismo trovò fra quei pazzi persone molto più civili rispetto ai liberi schiavi del regime.
Un altro famoso aneddoto racconta che durante l'epoca fascista, a seguito del divieto per gli uomini di passeggiare con cani di piccola taglia (secondo i fascisti per "salvaguardia della virilità"), camminò, come forma di contestazione, per le principali strade di Napoli (via Caracciolo e Corso Umberto) con un gallo al guinzaglio. (!)

MILITANZA E PCI - UN COMPAGNO POCO AFFIDABILE
Caccioppoli si impegna attivamente in politica, assieme a moltissimi altri intellettuali napoletani.
Nel dopoguerra si avvicinò al Partito Comunista Italiano.
Il PCI viene visto come la forza in grado di rigenerare il Paese e dargli una prospettiva di trasformazione. Comincia a frequentare le sezioni del partito (di cui, tuttavia, non prenderà mai la tessera), la sede napoletana del'Unità e a tenere comizi per il partito. Gira sembra con una copia dell'Unità nel giaccone. Le appassionate discussioni politiche con i giovani che la frequentano (Francesca Spada, Ermanno Rea, Franco Prattico, Ivan Palermo, Mariano D’Antonio) si svolgono nella sede del quotidiano comunista, intorno ai tavoli del bar “Gambrinus” o in qualche trattoria, e si spingono spesso fino a notte inoltrata.
Per i suoi precedenti penale e per il suo impegno in almeno due occasioni, nel 1953 e nel 1954, gli fu negato il visto sul passaporto per partecipare a congressi internazionali.
Ma Caccioppoli è un non-conformista nato, è insofferente alle logiche di partito. Critica un Pci troppo rigido, fedele solo ai propri obiettivi, a se stesso e a chi lo giuda, non ne condivideva la politca su alcune questioni internazionali (rimase profondamente turbato dall'invasione dell'Ungheria nel 1956) e la dottrina scientifica ufficiale sovietica.
La sua presenza intorno al partito veniva vissuta con sofferenza, con malcelata sopportazione.
Per paura dei suoi discorsi troppo critici, Amendola lo pressava per avere una scaletta, una bozza scritta da controllare prima dei comizi
Un giorno a Bari invece di un comizio per “Partigiani per la pace”, il professore tenne un improvvisato concerto di pianoforte.
Certo averlo alle iniziative costituiva un grande vantaggio sul piano propagandistico. Ma che peso e che preoccupazione doversi portare appresso un “simpatizzante” simile, genio sin che si vuole, ma così imbevuto di decadentismo, così diverso, così distante. E così pericoloso, per via del grande ascendente che aveva soprattutto sui giovani …e lui non era affatto inconsapevole d’essere fonte di apprensione e anche di fastidio. Stava semplicemente al gioco, replicando a modo suo: con la forza dell’ironia.
L’amore per la libertà, la critica feroce delle convenzioni borghesi, l’insofferenza per l’arroganza e la stupidità del potere, non gli derivavano soltanto da una tradizione familiare dominata dall’ingombrante figura di nonno Bakunin, ma forse erano anche conseguenza diretta del suo inflessibile rigore intellettuale, intransigente e scontroso e della sua attività di matematico innovativo.
Una grande dirittura morale nascosta sotto una maschera d’ironia e nonchalance, ma “inaffidabile” per i compagni.

DUE RITRATTI E UN PIANOFORTE – LA CULTURA DI CACCIOPPOLI
Frequenta gli stessi salotti, gli stessi circoli, gli stessi caffè di La Capria, Ghirelli, Anna Maria Ortese, Patroni Griffi, Francesca Spada, Alicata: a Sorrento incontra Gide (che nel suo Journal ricorderà quegli occhi così sfavillanti d’intelligenza), frequenta Moravia ed Elsa Morante, si lega d’amicizia con Neruda ed Eluard.
La sua notorietà non è limitata ai cenacoli intellettuali: quando di giorno percorre la strada da Palazzo Cellamare a via Chiaia, dove abita da solo, fino all’università, quando fino a notte alta passa da un caffè all’altro, tutti riconoscono, non foss’altro che per l’esile silhouette di dandy trasandato, ‘o prufessore, o come anche lo chiamano ‘o genio, o'pazz, o'comunista.
Sperimentò la vita dei barboni, e fu arrestato, ubriaco fradicio, per accattonaggio di notte dalla polizia per un controllo a Piazza Garibaldi, a Napoli, nell'incredulità degli agenti.
Un impermeabile e una canottiera bianca (si vestiva sempre così con qualsiasi clima e temperatura), per quella che passerà alla storia come la leggenda del “vestivamo alla Caccioppoli”, per questo logoro trench bianco beige, sporco, portato in giro, alla Tenente Colombo, per le strade di Napoli, con sempre maggior sciatteria; questo matematico geniale e insuperabile che si perde nell’alcool, intellettuale colto e raffinato, intransigente e spietato avversario dell’ignoranza e della banalità, affidava le sue lunghe notti a compagnie non sempre raccomandabili.
Un uomo innamorato di cinema (fondatore del Circolo del Cinema, uno dei primi cineforum post-guerra a Napoli) e un appassionato di musica (era anche un ottimo pianista).
Con Caccioppoli, notturno anticonformista fino allo scandalo, le serate finivano per lo più all’osteria. Altre volte invece finivano a casa sua, dove con Francesca Nobili Strada (la giornalista dell’Unità che morì suicida due anni dopo la morte di Renato) il professore si metteva a suonare il piano: a quattro mani suonavano pezzi per lo più dannatamente romantici, pezzi che non finivano mai, oppure finivano per congiungersi quasi senza soluzione di continuità ad altri pezzi, obbligando incalliti chiacchieroni ad un silenzio forzato, talvolta insopportabile, tanto che il gruppo si sfoltiva progressivamente, per successive defezioni in punta di piedi.
Influenzato dall’anticrocianesimo, amava discutere di Nietzsche, Proust e l’amato Rimbaud.
Aveva piazzato sul proprio scrittoio, in due portaritratti d’argento, il volto del giovane poeta e quello di un matematico: Rimbaud e Galois, destinati a colloquiare tra loro, nonché a notte entrambi con il professore stesso.

LA MORTE
L'8 maggio 1959 arriva la notizia del suicidio, un colpo di pistola alla testa, nella sua casa di Palazzo Cellammare (fra via chiaia e via filangieri).
La crescente instabilità aveva acuito le sue "stranezze", al punto che la notizia non colse di sorpresa quanti lo conoscevano.
Un uomo 'disabitato', come lo definì qualcuno, che si portava dietro tutte le lacerazioni e i conflitti interiori mai risolti.
Un giorno disse: “Se hai paura di qualcosa, misurala; scoprirai che si tratta di un’inezia”.



- BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA: 
Morte di un matematico napoletano - Fabrizia Ramondino Mario Martone - Ubu editore
La regola del disordine - Roberto Gramiccia - Editori Riuniti
Renato Caccioppoli L'enigma - Antonio Toma - Edizioni scientifiche italiane
Renato Caccioppoli tra mito e storia - Gatto Rigatelli - Sicania editore
Mistero Napoletano - Ermanno Rea - Einaudi editore


La ricotta

Io sono una forza del Passato. 
Solo nella tradizione è il mio amore. 
Vengo dai ruderi, dalle chiese, 
dalle pale d'altare, dai borghi 
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, 
dove sono vissuti i fratelli. 
Giro per la Tuscolana come un pazzo, 
per l'Appia come un cane senza padrone. 
O guardo i crepuscoli, le mattine 
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, 
come i primi atti della Dopostoria, 
cui io assisto, per privilegio d'anagrafe, 
dall'orlo estremo di qualche età 
sepolta. Mostruoso è chi è nato 
dalle viscere di una donna morta. 
E io, feto adulto, mi aggiro 
più moderno di ogni moderno 
a cercare fratelli che non sono più.

il pubblico deve capire



La vita immateriale


Al di sopra di ogni sospetto



vendesi facce in tv


Pasta nera



libri consigliati: 
- Quel treno lungo lungo - Buffardi Giulia - Dante e Descartes editore

martedì 8 gennaio 2013

l'italia sotto sotto

appunti per un vite parallele: Pasolini e Foucault


di Wu Ming 1
Nel corso degli anni, leggendo diversi libri di e su Pier Paolo Pasolini (1922-1975) e Michel Foucault (1926-1984), mi sono reso conto di numerose coincidenze, risonanze e convergenze, non solo tra le loro opere, ma anche tra le loro vite. Non posso dire con sicurezza di averle colte per primo: su entrambi i suddetti è ormai disponibile una letteratura sterminata, inassimilabile da chiunque. L’ermeneutica pasoliniana e quella foucaultiana producono a getto continuo nuove «letture» più o meno pertinenti, e nelle varie lingue i libri si contano a centinaia, forse migliaia. Può dunque darsi che altri abbiano già steso «appunti» simili ai miei. Al momento, però, ne dubito. Pur seguendo – nei limiti delle mie possibilità e competenze – i dibattiti su Pasolini e su Foucault, e avendo trovato alcuni (pochi ma importanti) riferimenti incrociati, non mi è ancora capitato di leggere una trattazione dei molti parallelismi fra i due autori. Cosa sorprendente, dato che certe analogie, come suol dirsi, saltano agli occhi.
Ho preso la decisione di espandere e rendere pubbliche queste «noterelle» (scritte a partire dall’estate 2010) dopo aver letto il recente libro di Roberto Esposito Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana (Einaudi, 2010).
Esposito propone una genealogia alternativa della nostra filosofia, un phylum di alterità e critica al potere che include «non-filosofi» come Leopardi e Pasolini, oltre a pensatori/politici come Gramsci, Tronti, Negri etc. Secondo Esposito, il pensiero italiano sarebbe caratterizzato da un perenne movimento verso l’esterno, oltre i confini che il potere assegna alla filosofia, verso la definizione e la sperimentazione di rapporti tra vita e storia, vita e politica, vita e lotta. 
Questa vita appena menzionata è il bìos, forma-di-vita che lotta per avere un senso, vita umana che sia degna di essere vissuta.
Non è un caso  che nella filosofia italiana degli ultimi anni abbia assunto sempre maggiore importanza il concetto di «biopolitica», che Michel Foucault introdusse per la prima volta nelle pagine finali de La volontà di sapere (1976, primo volume di una progettata e mai terminata «Storia della sessualità»), e a cui dedicò il corso al Collège de France dell’anno 1979 (intitolato appunto: «Nascita della biopolitica»).
Un capitolo del libro di Esposito è dedicato a Pasolini e al suo partire dai corpi, alla sua ricognizione dei modi in cui il potere incide sui corpi i propri codici, alla disperata riflessione su come i corpi potrebbero resistere a tale codificazione. Per Pasolini, è noto, scrivere e militare significava «gettare il proprio corpo nella lotta» (da un verso di Poeta delle ceneri, 1966-1967).
La trattazione di Esposito ha rafforzato la mia convinzione che si possa stabilire una connessione forte tra Pasolini e Foucault, e mi ha spronato – come dicevo poc’anzi – a tirar fuori gli appunti.
Cosa sapevano l’uno dell’altro?
Non risulta che Pasolini fosse un lettore di Foucault: nei suoi scritti non ho trovato alcuna menzione del filosofo francese [*]. Eppure negli anni Sessanta il futuro polemista «corsaro» studiò con grande interesse gli strutturalisti (lo testimoniano i saggi raccolti nel 1972 in Empirismo eretico), confrontandosi con le teorie diRoland Barthes e altri autori di quella temperie. La stessa temperie da cui stavano emergendo post-strutturalisti come Foucault e Gilles Deleuze. Inoltre, Pasolini lesse i libri di Pierre Klossowski sul marchese De Sade, tanto che Klossowski è citato nei titoli di testa e, con felice anacronismo, in un dialogo di Salò, insieme al già citato Barthes.
Klossowski era un buon amico di Foucault, e Sade era uno degli oggetti di studio prediletti anche da quest’ultimo, che se n’era occupato sin dai tempi di Storia della follia nell’età classica, opera concepita e scritta nei tardi anni Cinquanta.
A completare una sorta di ideale «trittico», va citato un altro pensatore caro a Foucault: Maurice Blanchot, il cui Lautréamont e Sade (1963) è una delle opere citate da Pasolini nella bibliografia che precede Salò.
Bibliografia essenziale. Fotogramma dai titoli di testa di “Salò” (1975)
Se dovessimo allargare il triangolo scaleno Barthes-Blanchot-Klossowski per ottenere una figura quadrangolare, il punto da includere nel perimetro corrisponderebbe senz’altro al nome di Foucault.
A conti fatti, c’erano tutte le «precondizioni» per una conoscenza di Foucault da parte di Pasolini. Nondimeno, sembra plausibile affermare che, quando Pasolini morì (novembre 1975), Foucault non era ancora entrato nel suo radar [*].
Mi si lasci introdurre un elemento di “ucronia”, un come-sarebbe-potuta-andare: se Pasolini fosse sopravvissuto, probabilmente avrebbe letto gli scritti foucaultiani sulla sessualità, trovandovi riflessioni molto vicine alle sue. Mentre Pasolini vergava la sua Abiura della «Trilogia della vita», Foucault stava scrivendo La volontà di sapere.
E’ d’altronde possibile che, durante la stesura de La volontà di sapere, Foucault avesse tra i suoi riferimenti Pasolini. Del fatto che avesse letto Pasolini abbiamo addirittura una testimonianza autografa.
Il 23 marzo 1977, quasi un anno e mezzo dopo la morte di Pasolini, Le Mondepubblica una recensione del suo documentario Comizi d’amore, proiettato di recente in una retrospettiva parigina. L’autore della recensione, intitolata «I grigi mattini della tolleranza», è proprio Michel Foucault. Quest’ultimo legge il film del ’63 alla luce delle analisi successive di Pasolini («corsare» e «luterane»), che implicitamente fa coincidere con le proprie. Foucault dà mostra di aver letto gliScritti corsari e visto svariate altre pellicole pasoliniane, a cominciare da Mamma roma. Ecco gli ultimi capoversi dell’articolo:
«Il film [...] può servire da punto di riferimento. Un anno dopo Mamma Roma, Pasolini continua su ciò che diventerà, nei suoi film, la grande saga dei giovani. Di quei giovani nei quali non vedeva affatto degli adolescenti da consegnare a psicologi, ma la forma attuale di quella “gioventù” che le nostre società, dopo il Medioevo, dopo Roma e la Grecia, non hanno mai saputo integrare, che hanno sempre avuto in sospetto o hanno rifiutato, che non sono mai riuscite a sottomettere, se non facendola morire in guerra di tanto in tanto. E poi il 1963 era il momento in cui l’Italia era entrata da poco e rumorosamente in quel processo di espansione-consumo-tolleranza di cui Pasolini doveva redigere il bilancio, dieci anni dopo, nei suoi Scritti corsari. La violenza del libro dà una risposta all’inquietudine del film. Il 1963 era anche il momento in cui aveva inizio un po’ ovunque in Europa e negli Stati Uniti quella messa in questione delle forme molteplici del potere, che le persone sagge ci dicono essere “alla moda”. E sia pure! Quella “moda” rischia di rimanere in voga ancora per un po’ di tempo, come accade in questi giorni a Bologna.»
(Traduzione dal francese di Raoul Kirchmayr, tratta daAut Aut n. 345, «Inattualità di Pasolini», gennaio-marzo 2010)
[L'ultima frase è, ovviamente, un riferimento alla rivolta di massa seguita all'uccisione di Francesco Lorusso.]
A pensarci, è alquanto implausibile che Foucault – studioso del sadismo, dei meccanismi disciplinari e del rapporto sesso-potere – non avesse visto Salò, proiettato in anteprima al Festival di Parigi il 22 novembre 1975, pochi giorni dopo la morte violenta del suo autore e regista.
Le courage de la vérité
Che Foucault, negli ultimi anni della sua vita, avesse in mente il percorso poetico/critico e le riflessioni di Pasolini, parrebbe evidente anche dal titolo del suo ultimo corso al Collège de France (1984), quello dedicato al concetto di parresìa, ovvero al «parlare franco», al «discorso veritiero» della cultura greca. Il corso si intitolava: «Il coraggio della verità». La traduzione italiana delle trascrizioni arriverà in libreria a settembre, edita da Feltrinelli, a cura di Mario Galzigna.
A quanto mi consta (ne ho parlato anche con Galzigna), nessuno ha riconosciuto la citazione pasoliniana. Eppure l’espressione figura in uno degli scritti più conosciuti del Pasolini corsaro: «Il romanzo delle stragi», noto anche col titolo «Che cos’è questo golpe?», uscito sul Corriere della sera il 14 novembre 1974. Pasolini scrive (sottolineature mie):
«Il potere [...] ha escluso gli intellettuali liberi [...] dalla possibilità di avere prove ed indizi. Mi si potrebbe obiettare che io [...] potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico [...] compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi. Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.»
Due vite
Pasolini e Foucault erano quasi coetanei. Nacquero a quattro anni di distanza l’uno dall’altro e furono battezzati con due nomi, uno dei quali era “Paolo”: Paul-Michel Foucault e Pier Paolo Pasolini.
Nacquero e crebbero in provincia, sospesi tra città e campagna: Foucault tra Poitiers e la fattoria dei nonni a Vendeuvre-du-Poitou; Pasolini tra Bologna e Casarsa. Ebbero un rapporto forte con la madre (che sarebbe loro sopravvissuta) e di quasi estraneità col padre (che sarebbe morto prima di loro). Vissero l’occupazione tedesca dei rispettivi paesi, e nelle loro educazioni ebbe un ruolo importante la Resistenza. L’occupazione e la guerra partigiana incisero più tragicamente nella vita di Pasolini, che perse il fratello Guido, ma anche la vita di Foucault ne fu influenzata, e proprio nel rapporto col suo futuro pane quotidiano, ovvero la filosofia: due insegnanti di filosofia del suo liceo, il Collège Saint-Stanislas di Poitiers, furono uccisi dai nazisti in quanto membri della Resistenza. E negli ultimi anni di vita, Foucault ricorse almeno una volta a uno pseudonimo, «Louis Appert», che era in realtà un sottile omaggio alla Resistenza: Louis Appert era un partigiano, un membro del Comité de Libération di Poitiers.
Più o meno alla stessa età, Pasolini e Foucault si iscrissero ai rispettivi partiti comunisti: Pasolini nel 1947, Foucault nel 1950. Ne uscirono due anni più tardi, e in malo modo: Foucault nel 1952, in polemica con l’antisemitismo diffuso nel PCF; Pasolini espulso dal PCI nel 1949, dopo lo scandalo di Ramuscello. Per la diversa natura dei due partiti (quello francese tetragonamente stalinista, quello italiano meno rigido e più dotato di «contrappesi» quali l’eredità di Gramsci), Pasolini poté ristabilire un rapporto e un confronto, seppure a tratti molto critico, mentre la rottura di Foucault fu assoluta.
I due si stabilirono nelle capitali dei rispettivi paesi. Attraversarono marxismo e psicanalisi. Vissero la loro attività intellettuale in modo «militante» e, in modi diversi, polemizzarono con la «nuova sinistra» nata dal ’68. Viaggiarono in Africa e negli Stati Uniti. Si interessarono alle arti underground e alla controcultura USA.
Fin da giovanissimi si scoprirono omosessuali.
Furono aggrediti fisicamente durante o subito dopo «spedizioni» notturne legate al sesso: Foucault fu picchiato a Tunisi nel 1968 (probabilmente da elementi in borghese della polizia politica); Pasolini fu aggredito a Roma diverse volte, fino alla fatidica serata all’Idroscalo.
All’affermarsi dei movimenti di liberazione omosessuale, Pasolini e Foucault ammisero – implicitamente o esplicitamente – di rimpiangere la (o provare piacere nella) dimensione del segreto e della doppiezza. In una lettera aperta a Calvino dell’8 luglio 1974, poi raccolta negli Scritti corsari, Pasolini si paragonò con un certo compiacimento a Mister Hyde: «Io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita.» Foucault, in alcune interviste, descrisse la vecchia, codificata clandestinità in toni sottilmente elegiaci.
Morirono entrambi in circostanze legate alla loro ricerca del sesso: Pasolini massacrato all’Idroscalo di Ostia (da chi?) dopo aver rimorchiato Pelosi; Foucault stroncato dall’AIDS, plausibilmente contratto nelle saune gay di San Francisco.
Una diversa violenza sui corpi
La «Trilogia della vita» (composta dai film Il Decameron,I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte) metteva in scena il sesso e il suo “linguaggio”, narrava la potenza dell’eros.
La presa di distanza che Pasolini esprime nella Abiura della «Trilogia della vita» (1975) ha molto in comune con quel che scriverà Foucault un anno dopo nel primo capitolo de La volontà di sapere, intitolato «Noialtri vittoriani»: è falsante descrivere il rapporto tra sesso e potere solo in termini di repressione del primo da parte del secondo; «scegliere il sesso non significa di per sé essere contro il potere», perché il «divieto del sesso» non è la strategia universale del potere, semmai è una strategia locale, singolare, che in certe fasi e in certi luoghi prevale sulle altre. Il rapporto tra sesso e potere si basa su un continuo «discorso sul sesso», sollecitato in tanti modi, e dunque una società può esercitare il potere sul sesso anche «iper-sessualizzando» le pratiche e i discorsi.
Scrive Pasolini:
«Io abiuro dalla Trilogia della vita, benché non mi penta di averla fatta. Non posso negare la sincerità e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro simbolo culminante, il sesso [...] Nella prima fase della crisi culturale e antropologica cominciata verso la fine degli anni Sessanta – in cui cominciava a trionfare l’irrealtà della sottocultura dei “mass- media” e quindi della comunicazione di massa – l’ultimo baluardo della realtà parevano gli “innocenti” corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza degli organi sessuali [...] Ora, tutto si è rovesciato. Primo: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza. Secondo: anche la “realtà” dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico; anzi, tale violenza sui corpi è diventata il dato più macroscopico della nuova epoca umana.»
Negli anni in cui i movimenti per la liberazione del corpo e per la rivoluzione sessuale combattevano importantissime battaglie, e i movimenti omosessuali iniziavano la loro lunga lotta per libertà e apertura, Foucault e Pasolini mettevano in guardia tutti quanti, esortavano a sospettare di quella libertà e di quell’apertura, sostenendo che il problema della sessualità non era più – o non era soltanto – la sua repressione. Ipostatizzare una strategia locale (il divieto del sesso, il castigo del corpo in costumi repressivi), descriverla come operativa sempre e comunque, significava non capire che il rapporto tra sesso e potere può essere di segno molto diverso e non per questo produrre soggettività più libere.
Pensiamo al «berlusconismo», qui inteso nell’accezione più ampia, come manifestazione esemplare e al tempo stesso versione molto italiana (cfr. Stanis La Rochelle) di quello che Jacques Lacan chiamava il «discorso del capitalista», cioè l’esortazione al godimento immediato, a scapito di ogni regola e legame sociale.
Nel «discorso di Berlusconi» non c’è pruderie né tantomeno «divieto del sesso», anzi: c’è la continua titillazione para-pornografica dell’immaginario, e l’accusa di «moralismo bacchettone» è usata come clava contro chiunque si azzardi a criticare l’andazzo corrente. E’ precisamente lo scenario dell’Abiura.
Il «discorso di Berlusconi» dimostra anche che il rapporto tra potere e sesso è fatto di strategie diverse tra loro, mai riducibili ad unum, a un’unica logica a cui ricondurre ogni mossa. Basti un esempio: nell’Italia berlusconizzata si auto-alimenta da tempo un circolo vizioso tra incitazione all’omofobia (con sempre più episodi di violenza di strada) e rutilante esibizione/esaltazione del gay o del transgender famoso e possibilmente di destra (da Platinette a Signorini a Lele Mora, passando per Dolce & Gabbana). Platinette, non a caso, è l’esempio posto all’apice del sermone sulla «locura»  nell’ultima puntata della serie TV Boris:
«…Io parlo della locura, René, lalocura! La pazzia, che cazzo, René… La cerveza! la tradizione (o ‘merda’, come la chiami tu), ma con una bella spruzzata di pazzia. Il peggior conservatorismo… che però si tinge di simpatia, di colore, di paillettes. In una parola: Platinette! Perché Platinette, hai capito, ci assolve da tutti i nostri mali, da tutte le nostre malefatte… ‘Sono cattolico, ma sono giovane e vitale perché mi divertono le minchiate del sabato sera!’ È vero o no? Ci fa sentire la coscienza a posto, Platinette. Questa è l’Italia del futuro: un paese di musichette… mentre fuori c’è la morte! È questo che devi fare tu: ‘Occhi del cuore’, sì, ma… Con le sue pappardelle, con le sue tirate contro la droga, contro l’aborto… ma con una strana, colorata, luccicante… frociaggine! Smaliziata e allegra come una cazzo di lambada! È la locura, René, è la cazzo di locura! Se l’acchiappi, hai vinto.»
Il potere non si basa sul divieto del sesso, ma sulla continua sollecitazione di undiscorso sul sesso, che può sì includere strategie di interdizione e condanna, ma giocandole con altre finalizzate alla spettacolarizzazione, alla mercificazione, alla distrazione di massa, alla creazione di perversi «doppi vincoli» tra l’imperativo «Godi!» e la condizione «Purché tu rimanga al tuo posto». Musichette, mentre fuori c’è la morte. E’ la locura. E’ la cazzo di locura.
Postilla su Pasolini e la «Dopostoria»
Anche alla luce di questo, è riduttivo, anzi, è del tutto fuori luogo dire che Pasolini fu un «reazionario». E’ una misera scorciatoia. Certamente gli piaceva épater les modernes, ma i suoi contrattacchi culturali li azzardò partendo dal rammarico per la scomparsa dell’ «illimitato mondo contadino», non approdandovi. Soprattutto nei suoi anni «corsari» (ma già dai primi anni Sessanta), Pasolini cercò di aggredire il nemico non nelle postazioni che stava abbandonando, bensì in quelle che stava per occupare.
Si ricorda sempre il celeberrimo incipit «Io sono una forza del passato, / solo nella tradizione è il mio nome» (da Poesia in forma di rosa, 1964), ma quei versi andrebbero riletti ponendo maggiore attenzione alle prime quattro parole: «Io sono una forza». Il tempo è il presente, e non c’è un accasciarsi nella perdita, non c’è facile melancolia: il poeta è una forza, una forza che viene dal passato ma agisce nel presente, anzi, nel presente avanzato. Il poeta sta assistendo ai «primi atti della Dopostoria» da una postazione paradossalmente privilegiata («dall’orlo estremo di qualche età / sepolta…»). E’ la postazione di chi, incarnando la cesura tra tradizione e futuro, intuisce cosa riservi quest’ultimo e può aggirarsi in esso, «più moderno d’ogni moderno».
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
Su questo, cfr. gli aggiornamenti nei commenti qui sotto.
[Un montaggio diverso e più breve di questi appunti è uscito sul n.3 di Nuova Rivista Letteraria, Edizioni Alegre, maggio 2011.]
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BIBLIOGRAFIA SELEZIONATAGuy Casadamont, “Masques de Foucault”, in: AA.VV., Discipline, Security and BeyondCarceral Notebooks vol. 4, Chicago, 2008
Didier Eribon, Michel Foucault, Leonardo, Milano, 1991
Roberto Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino, 2010
Michel Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1978
Franco Grattarola, Pasolini. Una vita violentata, Coniglio, Roma, 2005
David Macey, Michel Foucault, Reaktion Books, London, 2004
James Miller, La passione di Michel Foucault, Longanesi & Co., Milano, 1993
Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1972
Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1975
Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino, 1976
Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, Mondadori, Milano, 2005

Della natura umana


LE 10 REGOLE PER IL CONTROLLO SOCIALE (Noam Chomsky)


L’elemento principale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche.
1 – La strategia della distrazione. L’elemento principale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti.
La strategia della distrazione è anche indispensabile per evitare l’interesse del pubblico verso le conoscenze essenziali nel campo della scienza, dell’economia, della psicologia, della neurobiologia e della cibernetica. “Sviare l’attenzione del pubblico dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali (citato nel testo “Armi silenziose per guerre tranquille”).
2 – Creare il problema e poi offrire la soluzione. Questo metodo è anche chiamato “problema – reazione – soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” che produrrà una determinata reazione nel pubblico in modo che sia questa la ragione delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, oppure organizzare attentati sanguinosi per fare in modo che sia il pubblico a pretendere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito delle libertà. Oppure: creare una crisi economica per far accettare come male necessario la diminuzione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.
3 – La strategia della gradualità. Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, col contagocce, per un po’ di anni consecutivi. Questo è il modo in cui condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte negli anni ‘80 e ‘90: uno Stato al minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.
4 – La strategia del differire. Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria” guadagnando in quel momento il consenso della gente per un’applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro di quello immediato. Per prima cosa, perché lo sforzo non deve essere fatto immediatamente. Secondo, perché la gente, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. In questo modo si dà più tempo alla gente di abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo con rassegnazione quando arriverà il momento.
5 – Rivolgersi alla gente come a dei bambini. La maggior parte della pubblicità diretta al grande pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, spesso con voce flebile, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente. Quanto più si cerca di ingannare lo spettatore, tanto più si tende ad usare un tono infantile. Perché? “Se qualcuno si rivolge ad una persona come se questa avesse 12 anni o meno, allora, a causa della suggestionabilità, questa probabilmente tenderà ad una risposta o ad una reazione priva di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno (vedi “Armi silenziose per guerre tranquille”).
6 – Usare l’aspetto emozionale molto più della riflessione. Sfruttare l’emotività è una tecnica classica per provocare un corto circuito dell’analisi razionale e, infine, del senso critico dell’individuo. Inoltre, l’uso del tono emotivo permette di aprire la porta verso l’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o per indurre comportamenti…
7 – Mantenere la gente nell’ignoranza e nella mediocrità. Far si che la gente sia incapace di comprendere le tecniche ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. “La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza creata dall’ignoranza tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare da parte delle inferiori” (vedi “Armi silenziose per guerre tranquille”).
8 – Stimolare il pubblico ad essere favorevole alla mediocrità. Spingere il pubblico a ritenere che sia di moda essere stupidi, volgari e ignoranti…
9 – Rafforzare il senso di colpa. Far credere all’individuo di essere esclusivamente lui il responsabile della proprie disgrazie a causa di insufficiente intelligenza, capacità o sforzo. In tal modo, anziché ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e si sente in colpa, cosa che crea a sua volta uno stato di repressione di cui uno degli effetti è l’inibizione ad agire. E senza azione non c’è rivoluzione!
10 – Conoscere la gente meglio di quanto essa si conosca. Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno creato un crescente divario tra le conoscenze della gente e quelle di cui dispongono e che utilizzano le élites dominanti. Grazie alla biologia, alla neurobiologia e alla psicologia applicata, il “sistema” ha potuto fruire di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia fisicamente che psichicamente. Il sistema è riuscito a conoscere l’individuo comune molto meglio di quanto egli conosca sé stesso. Ciò comporta che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un più ampio controllo ed un maggior potere sulla gente, ben maggiore di quello che la gente esercita su sé stessa.

lunedì 7 gennaio 2013

Hft: il mercato contro il tempo

http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/04/20/news/hft_le_mani_sulla_borsa-33274887/

che cosa vede uno scanner [un oscuro scrutare]



ci becchiamo


Fessbuk


Perché il discorso su “la Casta” è di destra


Citiamo solo gli ultimi in ordine di tempo. Lo spot della Fiat che ammicca esplicitamente al rancore verso le auto blu. Il video di Enzo Jachetti (uno che prestando la sua faccia al vero telegiornale del ventennio berlusconiano, Striscia la notizia, ha molte responsabilità della situazione in cui ci troviamo) che manda tutti i politici a quel paese. Il monologo di Enzo Brignano a Le Iene che rimastica i peggiori luoghi comuni del qualunquismo di fine regime. Il conduttore superberlusconiano Aldo Forbice che a “Zapping”, su Radio1, si fa portavoce di una campagna contro “i costi della politica” e per la riduzione del numero dei parlamentari. Quest’ultima, del resto, è l’unica rivendicazione comprensibile in mezzo alla fuffa del format messo in piedi da Giorgio Gori (uomo di Canale 5 e del Grande fratello) a favore di Matteo Renzi. Dunque, non si tratta più di un rumore di fondo, ma del rischio concretissimo che la crisi economica e politica produca un movimento d’opinione addomesticato e privo di sbocchi positivi.
La retorica – facile perché veritiera, eppure inutile – contro “la Casta” dilaga, di pari passo con l’incedere della crisi e accompagna gli ultimi atti del regime berlusconiano. Ma la struttura dei discorsi non è mai neutra. Come ha spiegato il linguista americano George Lakoff, ogni discorso costruisce un “frame”, una cornice concettuale, che i qualche modo contiene anche il suo esito. Ecco, la retorica sulla Casta è un “frame” di destra. Entrare dentro quella cornice significa portare acqua all’individualismo, al rancore senza rabbia, alla frustrazione. La (presunta) denuncia delle malefatte della “Casta” esiste da anni, viene pompata dai grandi mass-media (due giornalisti del Corriere della sera hanno coniato il termine e le televisioni non mancano di tirarlo fuori), ma non è servita a niente. È servita solo ad aggregare masse di individui abbandonati a sè stessi attorno al rancore e alla frustrazione. Non ha prodotto forme di solidarietà, sperimentazione di alternativa o lotte in grado di rompere la frammentazione. Si è concretizzata sempre in lamento sguaiato e generico contro “i politici”, alzando cortine fumogene per nascondere i rapporti sociali, la distribuzione della ricchezza, le relazioni di potere.
La retorica contro “la Casta” prescinde da qualsiasi colore politico. Tuttavia, ogni discorso che si pone oltre i confini valoriali e politici di “destra” e “sinistra”, ritenendole orpelli del passato o puri strumenti ideologici, alla fine – stringi stringi – vuole attaccare “la sinistra”. Chiunque abbia un minimo di esperienza politica quando sente pronunciare la frase “non sono né di destra né di sinistra” traduce mentalmente in “sono di destra”. Quella formuletta nove volte su dieci prelude ad una polemica verso la sinistra. Il sintagma “né di destra né di sinistra” riassume la genesi e l’autorappresentazione del fascismo. Quel modello è continuamente riproposto ai giorni nostri. Quando, nel 2008, i giovanotti telecomandati dai “fascisti del terzo millennio” di CasaPound cercarono di infiltrarsi nei cortei dell’Onda studentesca, intonarono lo slogan “Né rossi né neri ma liberi pensieri”.
Anche la Lega ha sempre cercato di presentarsi come “né – né”: il federalismo e persino la secessione vengono presentati come soluzioni agnostiche, non necessariamente di destra o sinistra”. Lo stesso dicasi per Forza Italia: Berlusconi ha sempre fatto vanto di raccogliere chiunque nel suo movimento carismatico: dai postfascisti agli ex comunisti passando per democristiani, radicali e socialisti. In un altro contesto, ma rimadendo a un movimento carismatico e populista, questo discorso vale anche per il partitino di Beppe Grillo, che ha cominciato ponendo problemi genericamente considerati di “sinistra” (l’ecologia, la lotta ai privilegi, i diritti dei giovani, l’antiberlusconismo) e che a furia di dirsi “né di destra né di sinistra” assume anche posizioni di destra, blaterando di invasione di clandestini o disegnando di complotti della finanza mondiale.
Bossi, Berlusconi e Grillo utilizzano volentieri la retorica della Casta, ci si trovano a loro agio. Bossi la piega alle teorizzazioni localiste (dice con la Padania, i politici sarebbero vicini al territorio e quindi più “controllati” dalla gente), Berlusconi se ne serve per tirarsi fuori (dice che lui non è un “politico” ma un imprenditore prestato alla politica che ha persino rinunciato allo stipendio da premier: quindi non fa parte della Casta!) e Grillo la usa per spargere la sua paccottiglia qualunquista.
Ancora: è tipico della destra banalizzare qualsiasi cosa, trasformare problemi complessi (come il deperimento della politica, la sua incapacità di fare da contropotere all’economia, la crisi della rappresentanza e della sovranità Stato-nazione) in questioni semplici. Assecondare il discorso sulla Casta significa soffocare la fiammella del pensiero critico con valanghe di frustrazioni e scorciatoie mentali. Questo non significa, ovviamente, che non ci si debbano inventare narrazioni “semplificate” per coinvolgere quelli meno abituati a muoversi dentro scenari complessi. La storia della sinistra, quella riformista e quella rivoluzionaria, è piena di simboli e miti pensati per coinvolgere la gente semplice. Ma l’arte della costruzione dei racconti e dei miti deve fare i conti con i rischi di questa attività. Le narrazioni politiche, per non fare il gioco della destra, devono sempre avere un’apertura verso sviluppi di ragionamento più alti e devono sempre disegnare scenari che producano esiti “positivi” e che invitino a mettersi in relazione con altri per costruire qualcosa. Altrimenti, siamo di fronte a una narrazione di destra: la costruzione di un “nemico” contro cui indirizzare la povera gente. Come nel caso della Casta.
Chi parla della Casta pone sempre questioni di metodo (“i politici guadagnano troppo”), ma non entra mai nel merito delle cose da affrontare. Cioè non prende posizione su nulla. Perché il più delle volte sbraitare contro la Casta serve solo disegnare uno scenario in cui ognuno fa quello che gli pare, una enorme zona grigia in cui muoversi liberamente e senza remore: “Siccome tutti rubano, lo faccio anche io per farmi giustizia da solo” (di questo tema si è occupato Franco Cassano nel suo “L’umiltà del male”, edito da Laterza).
Provate a digitare sul motore di ricerca di una qualsiasi libreria online la parola “Casta”. Vi accorgerete di quanti libri sono usciti solo negli ultimi due anni con quella parola nel titolo. Oltre al bestseller di Stella&Rizzo troviamo decine di volumi: ci si scaglia contro “La casta dei farmaci” e contro quella “dei sindacati”, si attacca “La casta del vino” e persino quella “dei radicalchic”. Per non parlare de “La casta della chiesa” e di quella “dei giornali”. Ovviamente, ci sono anche un paio di libri contro “La casta dei giudici”. Questa proliferazione di titoli è senz’altro dovuta a motivi di marketing (si cita il titolo del libro che ha venduto tanto). Il motivo di tanto successo è che lo schema del discorso sulla Casta è accattivante perché deresponsabilizzante: c’è sempre un “io” e uno “loro”, c’è sempre un confine che divide una generica “società” e qualche “casta” di rapaci parassiti. Il risultato è che la “società” indifferenziata non debba mai mettersi in discussione, che basti denunciare la corruzione (che riguarda sempre l’altro) per sentirsi in pace con la coscienza.

* Queste note sono debitrici della discussione collettiva che da tempo si dipana in rete: se n’è discusso in Giap!, il sito dei Wu Ming, ne hanno parlato nei loro blog – tra i tanti - Jumpinskark e Loredana Lipperini (emblematico lo scambio su Striscia la notizia), ne abbiamo scritto su Carta