mercoledì 2 gennaio 2013

Dopo Genova. Lo scontro e l’estetica del conflitto



da NapoliMonitor.it


Era il 2001, undici lunghi anni fa: New York aveva ancora le sue torri, l’Italia da poco aveva il suo nuovo governo Berlusconi. Qualche mese prima ero stato a piazza Municipio con tanta gente, noi eravamo con gli studenti, una marea di persone, tutto quello che poteva racchiudere un fiume in piena che improvvisamente attraversa Napoli. Era il 17 marzo e nei palazzi che puntammo erano rinchiusi, precisamente non so neanche chi, intenti a cercare soluzioni alle nostre vite. Noi eravamo scesi in piazza con l’adrenalina a mille, si doveva superare la zona rossa, quella che avevano delimitato loro, che quel giorno avevano deciso che non si poteva attraversare. È inutile stare a raccontare tutto quello che è successo. Io e i miei fratelli sappiamo quei giorni cosa sono stati, quello che hanno rappresentato e quello che ci hanno fatto diventare. Di quella giornata ricordo bene quello che promisi a me stesso, e soprattutto a quelli in divisa dall’altra parte. Ci vediamo a Genova.

A Genova ci sono andato. Con tutti i miei dubbi le mie perplessità, non certo su come stare in piazza, quello ormai lo stavo meditando dal 17 di marzo, ma su tutto quello che attorno a Genova in quei giorni ruotava. In quei giorni la città si era riempita di persone da ogni parte d’Europa, era bella ma nell’aria c’era qualcosa che non andava. I cortei che festosamente attraversavano la città, e le azioni simboliche che ci furono in quei giorni sembravano l’atto dovuto per poi vivere ore di terrore. In quel corteo che fu per tutto il tempo caricato dal sole e dall’asfalto rovente ho visto gente assurda, ho ascoltato discorsi strani e carichi di cazzate, forse anche per sdrammatizzare. Si camminava guardando avanti e aspettando il momento, quel momento in cui ci saremo dovuti chiudere, diventare un solo corpo, spingere e non indietreggiare.

È stato un tragitto in corteo dove non sentivo puzza di canne e nessuno ti chiedeva una cartina, le sigarette invece andavano in fumo una dietro l’altra, e poi quando meno te lo aspetti da lontano vedi che c’è una macchia nera. Sono loro, i teppisti, i violenti, gli assassini, tutti vestiti uguale, devono assicurarsi che nel corteo non succeda niente e che non si cerchi di oltrepassare la zona rossa. Pensando che questo era il compito delle forze dell’ordine mi viene da sorridere, forse perché nell’ultimo decennio in Italia ci siamo abituati che delle tragedie e dei problemi ne parlano i comici. Quello che è successo dal primo scontro alle due maledette “botte” che assordirono tutti è inutile parlarne, sono undici anni che la rabbia non si esaurisce. Il problema principale sta nel dopo, come si sono trascorsi questi undici anni che ci separano da quel momento, come si è tentato di bloccare quel meccanismo.

Dal 2001 a oggi è stata tutta una discesa: è vero quando dicono di non abbassare mai la testa, perché poi diventa sempre più difficile rialzarla. Difficile è anche tornare alla vita quotidiana dopo Genova, gli occhi si rifanno sempre a quello che hanno visto, riportano il presente al passato, percepiscono, trasformano e trasmettono alla mente non più quello che vedono, ma quello che vogliono vedere. Mai più dopo quel giorno ho visto sbirri buoni o qualcuno che la divisa la indossa per andare a lavorare, mai più ho visto leader e portavoce senza scheletri nell’armadio, mai più penso che ci sia bisogno di leader e portavoce. La voce deve essere talmente pungente e pesante che nessuno possa avere la forza di portarla. Genova ha dato a tutti la possibilità di vedere, ascoltare attentamente, seguire e ragionare. Pochi lo hanno fatto. Molti lo hanno interpretato male, oppure si sono sentiti deboli, hanno pensato fosse meglio trovare nuovi metodi, diverse strategie invece di combattere il muro più forte si sono messi a costruirne altri più piccoli da buttare a terra facilmente.

Dopo quelle giornate di luglio si è portato in piazza l’estetica del conflitto, visto che quello vero non si pensava di poterlo intraprendere, si è pensato bene di procedere alla rappresentazione programmata dello scontro, anche di quello più semplice e scontato. Una rappresentazione che ha prestato il fianco a teorie e pratiche che hanno determinato anche le sentenze che in questi giorni hanno condannato cinque imputati per le devastazione del G8. Fingere di scontrarsi con i poteri forti aumenta la condanna a chi veramente si scontra, accettare e dare per scontato che ogni scontro o azione di piazza debba essere programmata rende più grave le altre.

Sono ormai undici anni che qualsiasi cosa abbiamo cercato di contrastare, abbiamo dovuto farlo come attori, interpreti scelti di dinamiche già stabilite, che a nient’altro servono se non alla giustificazione del conflitto, alla legittimità di stare in piazza. Siamo noi che abbiamo condannato gli imputati di Genova 2001, siamo noi i responsabili di quello che si è vissuto in quell’aula di tribunale, è il frutto di quello che in undici anni si è seminato. La generazione che viene da Genova è stata sconfitta, forse come altre generazioni, ma  a differenza di altre senza combattere, oppure combattendo per poco, arrendendosi facilmente e precocemente alla forza di una pistola. Iniziando da quel momento a far finta di combattere, evidenziando la voglia di cambiare un sistema, ma altrettanto l’impotenza nel poterlo realmente fare.

Il 15 ottobre 2011 a Roma c’è stata una grande mobilitazione che durante tutta la giornata ha visto sfilare in città varie realtà, vari modi di stare in piazza, un miscuglio contorto di modi di vedere. Durante la manifestazione che sarebbe dovuta terminare con un accampamento in piazza san Giovanni si sono susseguite azioni diverse, dalla ballata di protesta alla vetrina della banca sfondata, passando per quei maledettissimi spezzoni che durante i cortei riempiono le orecchie di parole dette da “personaggi”. La manifestazione non è finita con “l’acampada”, ma si sono ritrovati qualche centinaia di ragazzi, giovani e non, uomini e donne, che avendo avanti agli occhi i rappresentati dello Stato hanno rivoltato in quella piazza tutta la rabbia di chi vive, o meglio sopravvive con i problemi causati da scelte e decisioni assurde. Una piazza compatta come poche volte si è vista, che senza programmare e senza organizzarsi si è ritrovata dalla stessa parte con la stessa voglia. Dopo quella giornata tutti quelli che volevano accamparsi, sfilare tranquillamente senza intoppi per Roma, hanno pensato bene di incoraggiare le identificazioni dei responsabili delle ore di incidenti, ribadendo come questi scontri siano inaccettabili in un paese come l’Italia.

Forse erano inaccettabili per chi quel giorno lo aveva pensato diversamente, per chi dopo quel giorno voleva cominciare una scalata da qualche parte: era inconcepibile che in un paese come il nostro ragazzi, violenti e delinquenti, si mettessero a tirare pietre. È assurdo che in paese come l’ Italia, dove in parlamento ci sono i veri mafiosi, e la situazione economica è a dir poco disastrosa, un gruppo di manifestanti si rifiuti di parlare a San Giovanni o meglio di ascoltare in piazza tre quattro leader e portavoce riempire di prospettive assurde il loro futuro, caso mai progettandosi sotto banco un modo migliore di vivere. Il 15 ottobre si è messo in moto un meccanismo che tra qualche anno potrà portare i responsabili o, come spesso succede, qualche ragazzo preso a caso nel mucchio, a subire sentenze assurde ed esagerate. Allora non servirà più una raccolta firme o qualche attore che si fa fotografare con una scritta tra le mani, quel momento sarà la conclusione di un percorso poco modificabile, in cui i soliti  si sbatteranno, ma soltanto per sentirsi la coscienza pulita.

Le storie esistono per essere raccontate e i racconti servono a trarne il meglio, portare in evidenza gli errori e non rifarli. Carlo andava rispettato, non è stato fatto, non gli è stato portato il rispetto dovuto. Se Carlo è morto è perché stava li con un estintore in mano e non aveva di certo le mani pittate di bianco, per chiedere la pace e ballando tra chi con i colori cercava di cambiare le cose. Carlo voleva lottare, lo ha fatto, per undici anni nessuno ha continuato. Purtroppo per errori e responsabilità collettive tre compagni sono già in carcere, e a loro spero arrivi il mio pensiero. Due sono costretti a scappare, e a loro va tutto il mio fiato. Che gonfi le vele di chi cerca la sua meritata libertà. (raffaele aiello)

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